Chi ha fatto i miei vestiti? I consumatori spingono la Fashion Revolution

È sempre più virale il movimento che chiede all’industria della moda maggiore trasparenza e Csr con la campagna #WhoMadeMyClothes.

Le regole sono tre e sono semplici. Numero uno: farsi un selfie mostrando l’etichetta del proprio capo di abbigliamento. Numero due: caricare la foto o il video sui social. Numero tre: taggare e inserire nel post il marchio che ha fatto quell’abito e chiedergli #WhoMadeMyClothes? Ovvero, Chi ha fatto i miei vestiti?

E' questa l'iniziativa del movimento Fashion Revolution, che in occasione dell’omonima settimana  lanciata dal 18 al 24 aprile si sta diffondendo online attraverso i consumatori di 89 Paesi del mondo. L’organizzazione affonda le proprie radici nell’incidente avvenuto il 24 aprile 2013 al Rhana Plaza di Dhaka, in Bangladesh, dove 1.134 operai dell’industria tessile sono morti e oltre 2.500 sono rimasti feriti per il crollo di una fabbrica.

fashion revolutionSul web il fenomeno sta diventando sempre più virale e, rivolgendosi direttamente a tutti i brand del fashion, li mette sono una lente d’ingrandimento a cui è difficile sottrarsi, considerato la struttura dei media. Ancora una volta il canale social mostra tutto il proprio potenziale di croce e delizia per chi sceglie di sfruttarne la visibilità, ma ne è al contempo sottoposto dagli altri. Alcuni marchi della moda, dall’altro lato, hanno infatti sfruttato la tematica per fare instant marketing e rafforzare la loro immagine, come nel caso delle sneakers sostenibili di Veja.

fashion revolutionIl messaggio, insomma, è ancora una volta di sensibilizzazione sociale e spinge prima di tutto i consumatori a chiedersi se sono disposti a scaricare il loro risparmio monetario a monte della filiera, facendo in molti casi pagare la differenza a qualcun’altro. Più gli acquirenti si faranno questa domanda, più le aziende saranno invitate a rispondere attraverso tracciabilità, trasparenza e gestione sostenibile della produzione.

Alcuni lo stanno già facendo, a partire dal comparto food. Ne è una testimonianza la crescita a scaffale di referenze certificate con parametri etici ben precisi, dal marchio blu di Msc Pesca Sostenibile a Fairtrade, che tocca anche l’ambito tessile. Entrambi registrano sia all’estero che in Italia un incremento importante, aprendo a tempi maturi perché la corporate social responsibility possa diventare – letteralmente – di moda.

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