Dal capolinea del mall si riparte verso il terzo luogo

Urbanistica, Real Estate & Cci 2009 – Con il concetto di terzo luogo Oldenburg criticava i limiti di un modello urbano superato.

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In contrasto con il primo luogo (la casa)
e il secondo luogo
(il lavoro), il terzo luogo è lo spazio pubblico, l’area neutra in cui le persone si possono incontrare, riunire, interagire semplicemente per il piacere di farlo

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Solo un numero limitato di grandi superfici resisterà alla crisi. Le strutture marginali sono destinate a diventare “non luoghi”, a meno che non siano profondamente riqualificate

Tutto comincia all’inizio degli anni ’60, nel paese in cui il boom postbellico ha generato un’incredibile espansione urbana e industriale gettando le basi per un radicale cambiamento dei consumi. Stiamo ovviamente parlando degli Usa, dove è nato il concetto moderno di “mall”, sull’onda delle innovazioni introdotte dall’amministrazione Kennedy nell’economia nazionale, nell’edilizia residenziale e nella legislazione commerciale tra il 1961 e il 1962. Le nuove strutture a vocazione commerciale rispondono inizialmente a un’idea almeno in parte condivisibile: replicare su scala ridotta il complesso di beni e servizi, opportunità di acquisto e d’intrattenimento, tipico connotato della vita metropolitana. Obiettivo non dichiarato dei pianificatori urbani era affiancare ai nuovi sviluppi residenziali extraurbani una pluralità di offerta tale da rendere meno palpabile lo scollamento dall’originario tessuto urbano. Lo sviluppo urbanistico privo di connessioni logico-funzionali con il centro avrebbe potuto generare - com’è di fatto successo - il fenomeno dei quartieri dormitorio, i cosiddetti “suburbia”, ben lontani da un modello accettabile di vita.

In breve tempo questa vocazione plurale dei mall è stata abbandonata a favore di una destinazione monofunzionale, unicamente asservita allo shopping. Il cambiamento in sé sarebbe potuto essere indolore fintanto che i punti di vendita delle gallerie commerciali extraurbane avessero svolto un ruolo complementare a quello dei negozi nelle città, soddisfacendo i bisogni delle comunità locali. Lo sviluppo di mercati “retail” più efficienti, la crescita della grande distribuzione e quella esponenziale del franchising hanno invece trovato negli shopping mall il partner ideale per alimentare una naturale tendenza al gigantismo e al cannibalismo.

Le superfici di vendita sono divenute sempre più estese, le gallerie hanno accresciuto il mix merceologico in altezza e in profondità, i bacini d’utenza si sono ampliati al punto da superare i confini di una regione o di uno Stato: è evidente che, prima o poi, questi schemi originariamente pensati come strutture di servizio avrebbero finito per collidere con i centri città. Aumentando il grado di saturazione dell’offerta commerciale, la concorrenza è diventata da stimolo alla crescita fattore distruttivo, in grado di cannibalizzare il tessuto commerciale tradizionale, le botteghe di vicinato della “main street”, lasciando le città prive di coesione sociale. Negli Stati Uniti per altri trent’anni sono stati sviluppati, realizzati, commercializzati shopping mall monofunzionali, macchine per la spesa concepite per flussi annui di 12 milioni di visitatori, eppure prive di un concept integrato con il tessuto urbanistico, economico e sociale circostante.

I precursori del “terzo luogo”: Jane Jacobs e Ray Oldenburg

Il naufragio della più importante architettura commerciale del XX secolo coincide anche con il fallimento del suo principale inventore, quel Victor Gruen, architetto immigrato dall’Austria per fuggire il nazismo e artefice dei mall chiusi che tuttora costellano la provincia americana, in attesa di essere sostituiti dai nuovi modelli “open air”. E dire che, sempre negli Usa, il capolavoro di Jane Jacobs, “Death and Life of Great American Cities” preconizzava già nel 1961 le conseguenze disastrose per la vita cittadina di una pianificazione urbanistica disomogenea. Stupisce rinvenire in un testo che ha quasi 50 anni una lucida anticipazione di tutti i temi che orientano oggi l’attività di amministratori pubblici, sviluppatori, urbanisti e architetti, e che convenzionalmente raggruppiamo sotto il termine sostenibilità. Jacobs, con lungimiranza tipica di chi ha una visione prospettica e non limitata dal luccichio effimero della prosperità economica, sostenne con forza il valore della diversità, della pluralità dell’offerta, della densità sociale ed economica quali fattori dinamici di crescita sostenibile.

Questa concezione ante litteram della sostenibilità non fu evidentemente presa troppo in considerazione se, a distanza di trent’anni esatti, un altro caposaldo della letteratura urbanistica, “The Great Good Place” di Ray Oldenburg metteva a nudo tutti i limiti di un modello urbano incapace (in Europa, come negli Usa) di dare risposte ai bisogni delle comunità, gettando le basi per un pensiero nuovo. Oldenburg si concentrava sui risvolti sociologici della pianificazione urbana, riprendendo e superando le declinazioni concettuali, di stampo marxista, che ruotano sul termine “luogo”. In contrasto con il primo luogo (la casa) e il secondo luogo (il lavoro), il terzo luogo di Oldenburg è lo spazio pubblico, l’area neutra in cui le persone si possono incontrare, riunire, interagire semplicemente per il piacere di farlo. Dalla sua analisi delle città contemporanee e dei comportamenti dei cittadini, traeva la convinzione che troppa parte della vita urbana si riducesse a un ciclo casa-lavoro reso obbligatorio dalla mancanza di spazi pubblici adeguati al bisogno e al desiderio di esprimere la personalità. E in merito agli shopping mall sosteneva: “Al contrario del corso principale di una città, il centro commerciale è popolato da estranei. Le persone si muovono in un costante, monotono flusso all’interno del mall, senza che i loro occhi cerchino uno sguardo familiare, dal momento che le probabilità di incontrare qualcuno di conosciuto sono infinitesime. Il mall è progettato e strutturato in modo da attirare clienti di agglomerati urbani molto distanti tra loro e privi anche al loro interno di insiemi relazionali coesi, tanto che nemmeno le persone appartenenti allo stesso vicinato si conoscono.”

Il vecchio continente lancia la sfida culturale del terzo luogo

Su questi presupposti ormai datati s’innesta una consapevolezza innovativa e attualissima: è necessario, non da oggi, rivedere le fondamenta dello sviluppo immobiliare e, nella fattispecie, il concetto stesso di centro commerciale.

I grandi sviluppatori europei come Multi Development hanno da tempo imboccato la strada dello sviluppo sostenibile, convinti che il “public space”, ovvero il terzo luogo di Oldenburg, sia la migliore soluzione ai bisogni delle comunità di oggi e di domani. Hanno rivolto la loro attenzione verso i centri città, mettendo a disposizione delle amministrazioni pubbliche la loro esperienza e professionalità di designer urbani, la loro capacità di generare valore aggiunto economico e sociale, la loro rinnovata attenzione al contesto architettonico e culturale. E, dal momento che sono divenuti attori primari dello sviluppo urbano, hanno anche acquisito la necessaria responsabilità sociale, mix composito di oneri e onori nei confronti di collettività in cerca di dimensioni e stimoli nuovi.

Le possibilità e le opportunità di centrare il bersaglio sono molteplici, anche se non alla portata di tutti: per operare con successo la riqualificazione di centri storici in Europa - e ancora di più in Italia, dove ogni città racchiude un patrimonio culturale inestimabile - sono necessari, in dosi eguali, coraggio e sensibilità, innovazione e capacità d’ascolto.

Tuttavia, anche se si interviene sugli “scatoloni” di periferia, cioè sullo stock di centri commerciali obsoleti prima ancora di aprire i battenti, privi di un mercato in grado di sostenerli, oltre che esteticamente discutibili, la creazione di “terzi luoghi” deve orientare l’attività del progettista, stimolare la capacità dello sviluppatore, divenire valore economico per l’investitore.

Volendo semplificare un fenomeno complesso, la qualità delle nuove strutture “mixed-use retail” può essere misurata con parametri di sostenibilità che concorrono singolarmente a decretare il successo o l’insuccesso di un progetto. L’attuale scenario di recessione premia soltanto i centri che dispongono di un bacino d’utenza adeguato alle dimensioni e alle caratteristiche del mix merceologico: la sostenibilità economica della struttura commerciale - sia nuova sia riqualificata - è fondamentale.

Non è detto che la congiuntura economica penalizzi necessariamente le grandi superfici; è certo, tuttavia, che solo per un numero limitato di esse rimarrà un mercato adeguato a mantenerle competitive e quindi a garantire agli inquilini fatturati sufficienti ad ammortizzare costi di affitto e spese di gestione. Le strutture marginali sono destinate a diventare “non luoghi”, a meno che non siano profondamente riqualificate, sia passando da design chiusi a concetti aperti sia integrando funzioni realmente complementari allo shopping e spazi pubblici tali da avvicinarle all’ideale terzo luogo.

Inoltre, anche il progetto commerciale ben localizzato e perfettamente accessibile può non essere sostenibile in un arco temporale di lungo respiro. La società cambia a ritmi accelerati, mentre le strutture tradizionali sono anelastiche; impiegano due o tre anni per raggiungere la piena efficienza e nel giro di un lustro non soddisfano più le esigenze dei loro clienti, se non sono progettati per adattarsi al cambiamento: ecco che la flessibilità entra nella matrice di un intervento sostenibile.

Integrazione con il fattore ambientale

Il fattore ambientale è intrinsecamente legato allo sviluppo del terzo luogo: è necessario che un progetto sia “green”, ma non sufficiente. Oltre a rispettare i protocolli, deve disegnare un ambiente omogeneo alle persone che vi gravitano, dove sia piacevole passare il tempo, senza vincoli al processo d’acquisto. Questo vale sia per gli shopping mall extraurbani sia per i progetti “mixed-use” che ricostruiscono pezzi di città.

Esiste poi, tanto in Italia quanto in Europa, un consistente patrimonio immobiliare inutilizzato o sottoutilizzato.

Aree ex industriali, militari, strutture sportive, costruzioni abbandonate dalla funzione pubblica rappresentano occasioni per un restyling sostanziale e innovativo dello spazio, che generi valore aggiunto creando la densità che già Jacobs auspicava in riferimento alle aree urbane dismesse negli Usa.

È essenziale, anche in questo caso, una sinergia culturale ed economica tra amministrazioni pubbliche e investitori/sviluppatori privati. Sviluppi e riqualificazioni possono e devono essere profittevoli per tutti e, in ultima analisi, rappresentare un volano di crescita sociale per i cittadini, i quali, a loro volta, devono poter contribuire al disegno del quadro urbano in cui abitano e non solo alla sua cornice.
Per questo il terzo luogo, prima che un ambito fisico, rappresenta una sfida culturale di grandissima portata, molto più complessa rispetto alla riduzione dei consumi di CO2 del 3% o al rivestimento dei tetti dei capannoni con essenze, molto più dispendiosa dell’aggiunta di un cinema multiplex a un centro commerciale; e infine molto più coraggiosa dell’apertura dei tetti nei megamall. E, come tutti i cambiamenti culturali su grande scala, il terzo luogo deve essere spiegato dai soggetti che l’hanno già fatto proprio - innovatori pubblici e privati - alle comunità che di questo cambiamento sono e saranno fruitori. Quale migliore occasione per gli sviluppatori e i gestori dei centri commerciali di utilizzare il palcoscenico dei loro shopping mall per orientare milioni di utenti?

“Education for All” è il quinto pilastro del Manifesto della Sostenibilità di Multi Corporation: tanto importante quanto è cruciale trasferire la percezione del valore del cambiamento da pochi addetti ai lavori alla collettività.

* Marketing & Communication Manager Multi Development-C Italia

Il terzo luogo

Più

  • Restituisce allo spazio pubblico la funzione sociale ed economica di fulcro delle attività umane
  • Integra le funzioni tipiche del business commerciale con quelle del tempo libero, valorizzandone la sinergia
  • Ridisegna le città in funzione delle persone, dei loro bisogni e dei servizi di cui hanno bisogno nel presente e nel futuro
  • È la sintesi più avanzata dei modelli di sostenibilità, includendo attenzione al territorio e al contesto locale, responsabilità sociale, coscienza ambientale e cambiamento culturale

Meno

  • Perché sia vantaggioso per tutti richiede un rapporto sinergico tra pubblico e privato
  • Necessita di grande esperienza nella pianificazione urbanistica, nello sviluppo multifunzionale e nell’interpretazione
    dei cambiamenti
    socio-economici

La vita ruota sui primi luoghi e i nuovi eden

Roberto Pacifico

Questo articolo è una voluta provocazione: sappiamo bene che è un tantino azzardato qualificare in termini psicologici i principali luoghi dell’esistenza umana. Ma se si eccettuano i casi (alquanto rari) di chi è felice quando sta in un aeroporto o sprizza gioia da tutti i pori se deve fermarsi un’ora in più in ufficio, la rappresentazione nella matrice offre un punto di partenza probabilmente condivisibile dai più. Il concetto oldenburghiano di terzo luogo è riferibile, sul piano sociale e urbano, all’ambito, molto ampio e per questo vago, di “public space”, di spazio pubblico, inteso come area neutra nella quale le persone si possono incontrare, riunire e interagire senza una necessità o un obbligo specifici. I terzi luoghi sono perciò collocabili al centro di una scala ideale i cui estremi sono lo zero del non luogo (stante la definizione di Marc Augé) e i primi luoghi che, come la casa, rappresentano il massimo grado di ritrovamento del sé. L’aeroporto rimane il non luogo per antonomasia, come tutti i luoghi di transito; la propria abitazione è invece la quintessenza del “vero” luogo, il Luogo per eccellenza.

Il grafico visualizza il posizionamento dei principali luoghi (fissi o di transito) in rapporto a 4 dimensioni: le prime due (in ascissa) riportano al grado di coincidenza tra il sé e il luogo (estraneità vs autenticità), le altre due (in ordinata) richiamano la dimensione fisica (vicinanza vs lontananza).

Si enucleano così 4 macrocategorie: i non luoghi (mall tradizionali, aeroporti, stazioni ferroviarie), i primi luoghi (la propria abitazione, il quartiere dove si vive e i quartieri urbani in genere, i centri storici), i secondi luoghi (luoghi di lavoro, scuole, luoghi urbani non connotati, alberghi e hotel) e i terzi luoghi nei quali tendono a rientrare i centri commerciali di nuova generazione, ma anche cinema, discoteche, stadi di calcio.
I terzi luoghi tendono a collocarsi al centro del grafico, che costituisce l’area neutra, ovvero il grado zero dell’esperienza umana. Fanno eccezione (e costituiscono una categoria a sé) quei luoghi - che abbiamo denominato nuovi Eden - come le mete del turismo e dell’evasione in genere (non solo turistica) che si configurano spesso, anche se non necessariamente, come destinazioni lontane, ma sorgenti di autenticità: oggi l’uomo “si” ritrova tendenzialmente in due luoghi, la casa e i nuovi Eden. Se dovessimo riordinare le categorie di luogo in rapporto alla felicità del soggetto, l’ordine sarebbe il seguente:

1) primi luoghi e nuovi Eden (max felicità);

2) terzi luoghi;

3) secondi luoghi;

4) non luoghi (max infelicità).

Allegati

Cci2009-Terzoluogo
di Duccio Roggini* / giugno 2009

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