Editoriale
Flessibilità e concorrenza

Siamo tutti d’accordo che bisogna rendere flessibili le entrate e le uscite nel mercato del lavoro, ma lo saremmo ancora di più, se uscendo trovassimo strade nuove da intraprendere

Parliamo di lavoro e del suo contrario: più di 500.000 famiglie con figli sono senza reddito, coppie e genitori single, per lo più madri, non hanno un fine mese. Secondo Coldiretti, nel 2013, circa 4 milioni di italiani hanno dovuto ricorrere a mense e aiuti sociali per potersi nutrire, il 10% in più rispetto al 2012. La riforma, che il Ministro Poletti intervistato in queste pagine ha messo sul tavolo, rispecchia l'anima evolutiva in cui si trova il nostro Paese, un Paese che ha puntato molto al sociale, ma che nel tempo si è trasformato in assistenziale; un Paese che non ha sviluppato la capacità manageriale della cosa pubblica e che oggi soffre di una crisi strutturale e intrinseca propria; un Paese che deve cambiare pelle.

Ragionare sul lavoro, quindi, significa ragionare anche sui livelli di competitività, se i livelli sono limitati poco spazio è dato all'innovazione, se invece c'è molta competizione (come nel caso del commercio) l'innovazione viene frenata (perché rischiosa e costosa, almeno nel breve termine).
L'innovazione è una delle chiavi più importanti della crescita e del conseguente benessere derivante, e il tasso d'innovazione di un Paese è direttamente proporzionale alla sua capacità di creare posti di lavoro. Siamo tutti d'accordo che bisogna rendere flessibili le entrate e le uscite, ma lo saremmo ancora di più, se all'uscita ci fossero strade nuove da intraprendere; torniamo ai numeri iniziali, oltre un milione di famiglie, in Italia, non ha reddito (dati Istat), +18% rispetto al 2012. La flessibilità deve essere un'opportunità per aziende e lavoratori. Ma circoscrivere la soluzione del problema al contratto del lavoro non basta.

Inoltre, anche sotto la mera ottica di una riforma del lavoro, le peculiarità del comparto difficilmente trovano soddisfazione in una regola che vale per tutti, poiché prende i passi dai bisogni del comparto industriale, mentre commercio e agroalimentare (in particolare l'agricoltura) sono caratterizzati da elevati tassi di stagionalità, con grande esigenza di flessibilità, (fine settimana, orari allargati etc). Senza dimenticare che presentano un'elevatissima presenza femminile, con un alto numero di contratti part-time. Ci sarebbe dunque bisogno di regole ad hoc, lo sottolinea bene il professor Tiraboschi, nel suo intervento nelle prossime pagine: “Nel commercio e nei servizi, il modello di produzione non può che partire dalla centralità del consumatore che ha gusti ed esigenze variabili tali da richiedere modelli organizzativi flessibili, pluralistici, articolati in funzione delle caratteristiche delle persone, delle comunità e dei territori dove si opera”. Voi che cosa ne pensate?

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