Esiste il management scientifico?

Oggi ci si accorge che le teorie del management scientifico hanno contribuito alla crisi dell’economia. Ora non basta teorizzare il behavioral management ma occorre pensare che non è possibile distinguere la razionalità dai valori.

Credo che sia sempre stato e sia superfluo e inutile discutere sulla internazionalizzazione degli studi e della cultura aziendale e di management, creando una artificiale contrapposizione tra difesa della italianità o apertura alla positiva contaminazione con la comunità scientifica internazionale. Ciò può creare solo disorientamento nei giovani, che hanno accettato o accetteranno la non facile sfida di intraprendere la carriera di ricercatori in questo ambito del sapere.

Ritengo invece più importanti una riflessione e un confronto su alcuni aspetti di queste discipline che vengono sempre più spesso accettati acriticamente e assunti come postulati da non mettere in discussione. La prima di queste ipotesi di lavoro è proprio il concetto di management scientifico, infatti la cultura dominante sembra orientata ad utilizzare i metodi delle scienze naturali, dimenticando quanto hanno sottolineato non solo i fondatori dell’economia aziendale italiana e centro europea, ma anche Friedrich Von Hayek nel 1974 in occasione del conferimento del premio Nobel: “Ritengo che il fallimento degli economisti nell’orientare con maggiore successo gli interventi di politica economica sia strettamente connesso alla loro propensione a imitare più da vicino possibile le procedure proprie delle scienze naturali (…) Si tratta di un atteggiamento che, come ho già sostenuto una trentina di anni or sono, è decisamente antiscientifico nel vero senso del termine, in quanto comporta un’applicazione meccanica e acritica di modi di pensare a settori diversi da quelli per i quali esse sono stati elaborati”.

Infatti, mentre nelle scienze naturali la conoscenza procede tramite l’individuazione di chiare relazioni di causa-effetto tra fenomeni che si ripetono uguali (ad esempio, a livello del mare l’acqua bolle a 100 gradi e le reazioni chimiche sono sempre uguali se ripetute nelle stesso condizioni), l’economia come scienza sociale non è regolata da “leggi” e razionalità che determinano comportamenti meccanicistici. Le cosiddette “leggi del mercato” sono infatti comportamenti determinati dalle aspettative, ma anche dai valori dei soggetti che in esso operano. Non si può pertanto dire che la funzione dei manager e degli imprenditori sia quella di rispettare con razionalità le leggi del mercato per generare ricchezza che poi potrà essere distribuita. Affermare che non è possibile migliorare le condizioni di vita e distribuire la ricchezza se questa non è generata è banale o è una verità che non ha bisogno di essere dimostrata. Meno banale, ma proprio per questo assai più discutibile, è l’affermazione di Milton Friedman che spesso domina le stanze dei bottoni, secondo cui “the business of business is business”.

A nessuno dovrebbe sfuggire che, se è vero che non valgono le relazioni di causa-effetto come nelle scienze naturali, vi sono diversi modi per fare business e generare ricchezza. Si può decidere di avere una politica di alti prezzi con un target di elite o di avere prezzi più bassi ma rivolgendosi a una più ampia gamma di clienti, il che consente a un diverso numero di persone di soddisfare certi bisogni. Si può decidere di usare il proprio problema economico per attuare “guerre di prezzi” per distruggere concorrenti e utilizzare in seguito il potere monopolistico o oligopolistico per alzare i prezzi e ridurre l’accessibilità alle famiglie più povere, pur mantenendo o aumentando i propri profitti.

Di fronte alla possibilità di delocalizzare la produzione di beni in paesi con bassi salari, si può decidere semplicemente di accettare la delocalizzazione o di innovare tramite investimenti per realizzare una competizione non sul prezzo ma sulla qualità o sul brand del paese in cui si produce (ad esempio il made in Italy). La prima scelta comporta un aumento di occupazione e creazione di ricchezza nel paese emergente, controbilanciato da disoccupazione dal paese che viene abbandonato. La seconda scelta può far coesistere un mantenimento di occupazione nel paese di origine, con un aumento di occupazione nel paese dove vengono d localizzate certe fasi della produzione. A sua volta la delocalizzazione può essere attuata con scelte diverse. Accettare e sfruttare la mancanza di leggi di tutela della salute dei lavoratori, oppure applicare standard di tutela dei lavoratori anche in assenza di precise normative del paese.

Quindi si può tranquillamente affermare che l’idea guida secondo cui i buoni imprenditori e manager sono coloro che sanno tenere distinte e separate scelte razionali da opzioni di valore può essere considerata alla stregua della classica “favola per adulti” per imporre un nuovo tipo di ideologia, quella economica, che sembra aver sostituito quelle politiche del XIX e XX secolo. Ovviamente pronto a ricredermi a seguito di un franco confronto.

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