Etichetta senza stabilimento. Quali rischi?

Solo la questione bollente della reverse charge ha fatto passare in secondo piano il “pasticciaccio brutto” della 1169/2011. È ormai notorio che l’applicazione del regolamento europeo elimina l’obbligo di inserire il sito dello stabilimento di produzione in etichetta per i generi alimentari. Una decisione che appare incoerente con gli obiettivi della legge stessa. Ma oltre la questione dello stabilimento, sulla 1169/2011 è necessario premettere due aspetti di primaria importanza. Primo: si tratta di una legge dall’impianto ampiamente positivo. Secondo: non tutte le sue parti sono ancora specificate nelle modalità di attuazione. In altre parole i giochi non sono totalmente conclusi.

L’azione politica
Sulla condotta dell’esecutivo sono piovute e piovono molte critiche. In sostanza è rimproverato al governo Renzi una certa latitanza (nella migliore delle ipotesi) sulla gestione della questione. In Italia il regolamento nazionale imponeva dal 1992 l’obbligo di indicazione dello stabilimento di produzione; non si capisce il motivo per cui non si è intervenuti nei tempi e nei modi opportuni per notificare in sede europea questa istanza.
Eppure la partenza del governo Renzi faceva ben sperare: il ministro Martina aveva avviato “Campo Libero” nella primavera del 2014, un piano strategico per la definizione di azioni concrete per il settore agricolo in cui l’etichettatura è argomento presente. Un’iniziativa che ha la caratteristica di coinvolgere la collettività anche attraverso l’utilizzo dei media digitali e della rete attraverso sondaggi e questionari. Nonostante ciò si è arrivati al 13 dicembre 2014, data di entrata in vigore del provvedimento, senza batter colpo. Dopo la ridda di proteste veicolate su tutti i media, il ministro Martina ha riaperto la questione con l’intenzione di portare in Commissione Europea la norma italiana scoprendo che ... il ministero competente non è il suo! A muoversi in questa direzione deve essere quello dello Sviluppo Economico del ministro Guidi che ha dichiarato (notizia recente) l’apertura di un tavolo di lavoro che coinvolge tutta la filiera dell’agroalimentare. Eppure la questione è semplice nella sua ingarbugliata gestione e non necessiterebbe di nessun tavolo.
Vi sono comunque aspetti della 1169/2011 che appaiono migliorativi circa la normativa precedente.

Il perché dello stabilimento
Il consumatore ha diritto di sapere dove un prodotto alimentare è preparato. È una questione di trasparenza che non lede la concorrenza in alcun modo. La non obbligatorietà dell’indicazione dello stabilimento produttivo favorisce di fatto la delocalizzazione industriale, l’incremento dell’Italian sounding e la perdita di posti di lavoro. Questa è l’opinione di molti stakeholder dell’agroalimentare come Vito Gulli di Generale Conserve, uno dei primi big a firmare la petizione insieme e Mario Gasbarrino di Unes per ripristinare l’indicazione in etichetta. È interessante osservare che tra i firmatari vi sono molti retailer come Conad, Coop Selex, Simply, Eurospin ma anche grandi assenti. Se un qualsiasi player industriale acquisisse un marchio italiano e decidesse di produrre all’estero, il consumatore non avrebbe possibilità di sapere se il prodotto è effettivamente italiano. Una considerazione che appare scontata. Scontata non è, invece, la reazione di Federalimentare che in un comunicato del suo presidente Scordamaglia si limitata a dichiarare che la questione va risolta in sede europea e non con consultazioni popolari. Occorre sottolineare che Federalimentare porta avanti da sempre una posizione per la quale il food made in Italy non è quello prodotto con materie prime italiane, ma quello preparato in Italia. Secondo questa posizione, il food made in Italy nasce dentro lo stabilimento italiano che lo produce. Stabilimento che secondo la 1169/2011 non è più presente in etichetta. Un key factor competitivo di Federalimentare che sparisce di colpo. Un’altra questione da considerare è legata alla gestione delle crisi alimentari attraverso il Rasff, sistema di alert di contaminazione per alimenti e mangimi interconnesso. Attivo dal 1979 funziona h24 e nel 2013 ha veicolato 3025 notifiche di crisi. L’assenza in etichetta dello stabilimento di produzione può potenzialmente indebolire questo strumento, almeno nella velocità di propagazione delle informazioni dovendo interpellare il produttore. Non proprio, quindi un passo avanti in termini di tracciabilità.

2 COMMENTI

  1. Il rischio: delocalizzazione da parte delle multinazionali straniere, proprietarie di marchi italiani che per convenienza chiuderanno in Italia e produrranno altrove!!!

  2. Caro Oldani, grazie per il prezioso contributo d’opinione che ho il piacere di aggiornare con la notizia ultima del lancio di una nuova ‘petizione popolare’, al preciso scopo di non perdere altri mesi o anni a dibatter della stalla quando i buoi saranno già usciti.
    Il link alla petizione si trova sulla homepage di Great Italian Food Trade, su http://www.greatitalianfoodtrade.it.
    Grazie
    Dario Dongo

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