Export ortofrutta, modelli di business a confronto

di Jessika Pini

In Europa, la Spagna con 11,6 milioni di t nell’Ue e 975mila t extraUe, è il maggior esportatore di frutta e verdura, seguita da Paesi Bassi e Francia. L’Italia, con 3,2 milioni di t nell’Ue e 608mila t extraUe, si colloca al quarto posto. Ma è in proporzione il più attivo dei paesi europei nell’esportazione ortofrutticola fuori dal Vecchio Continente con il 19% dell’export destinato ai mercati lontani. Del resto, la necessità per l’Italia di sviluppare ulteriormente l’export dell’ortofrutta si conferma strada obbligata, se si analizza il calo del consumo interno: dal 2000 a oggi il consumo di frutta e verdura è sceso di 100 kg a famiglia o, se si preferisce, del 5,7% in volume dal 2009 al 2014.

Mercati più performanti
Ma dove si indirizza l'export specifico? Sulla base di dati Ismea elaborati da SgMarketing, negli ultimi dieci anni, la frutta italiana ha realizzato le migliori performance nell’Europa centro-orientale con un +12% in valore nel 2013 sul 2004; si sono aperti i mercati del Nord Africa (+4%) ed è cresciuta la penetrazione in Asia (+4%) e Medio Oriente (+3%). Mentre nello stesso periodo le esportazioni di ortaggi hanno trovato spazio solo nei nuovi paesi Ue (+14%). Per i trasformati il mercato più rilevante in termini di valore è l’Asia che assorbe il 9% dell’export. In questo segmento merceologico fanno da traino i derivati del pomodoro. “Con un atteggiamento lungimirante, mirato al potenziamento di mercati lontani, la filiera italiana del fresco si sta riorganizzando per poter produrre anche il trasformato”, osserva Claudio Scalise, managing partner SgMarketing.

Segmentazione delle destinazioni
Importante, per approcciarsi a nuovi sbocchi commerciali, è avere ben chiaro l’identikit dei consumatori: nell’Europa occidentale, Usa, Canada, Giappone e Australia, Paesi in cui vivono un miliardo di persone e dove il 70% delle vendite passa per il retail, ci si confronta con un responsabile d'acquisto maturo e critico, sensibile alle tematiche della sicurezza alimentare, della sostenibilità ecologica, sociale ed economica della produzione e che valuta il valore del brand “È quindi apprezzata -commenta Scalise- un’offerta legata al benessere (biologico, alimenti funzionali), local o equo solidale, ma anche ad alto valore di servizio ed esteticamente accattivante. Nei mercati in via di sviluppo (Europa centro orientale, Corea, Taiwan, Cina, Paesi del Golfo, Russia) il cibo è un elemento di connotazione dell’acquisizione di uno status sociale, c’è quindi attenzione verso le caratteristiche estetiche e intrinseche del prodotto e al brand. Infine nei nuovi mercati (Africa, Turchia, Medio Oriente, parti dell’Asia, India) il cibo è percepito come una necessità, l’ortofrutta è considerata una commodity e il principale parametro è il prezzo”.

Come andare all’estero
La modalità di gestione, più o meno diretta, della propria presenza all’estero dipende dal posizionamento dei prodotti rispetto all’offerta esistente, dai volumi, dai competitor (multinazionali, operatori locali, ecc.) e dalle risorse che l’azienda è in grado di investire. Sulla base di questi fattori SgMarketing ha riproposto all'attenzione i pro e i contro di cinque modelli di business. Si va da una gestione diretta del rapporto con i retailer, che implica grandi volumi, dà come vantaggio il contatto diretto con il cliente, ma comporta l’aggravio della gestione della logistica, all’affidamento completo della vendita a un importatore o distributore, che garantisce certamente una buona conoscenza del mercato, ma offre una minore marginalità (la grande concorrenza tra distributori si gioca tutta sul prezzo). Nel mondo del vino è molto diffuso l’utilizzo di broker o agenti: un sistema per bassi volumi, che implica per l’azienda un basso controllo del cliente e gli oneri della gestione finanziaria e logistica. Infine ci sono due modelli di delocalizzazione: la joint venture con produttore o distributore locale che nel settore ortofrutticolo riguarda soprattutto parte della lavorazione (solitamente il confezionamento) per contenere i costi, oppure, se si possiede un know how distintivo, l’, che consente di ottenere una marginalità elevata, di far crescere rapidamente il business, ma comporta un elevato esborso finanziario iniziale.

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