Fare impresa (e marca) nell’Italia che non cresce. Parla Francesco Mutti

Le prospettive a breve e lungo termine dell’industria di marca che fa del Made in Italy la sua bandiera (da Mark Up n. 279)

L'Italia è un Paese che da vent’anni non cresce. “Parliamo di un incremento del 2,5% spalmato su 18 anni. È una stagnazione infinita. Solitamente si definisce lo stato di salute di un organismo sulla velocità di reazione ai malanni. Il sistema Italia continua a vivere uno stato di immobilismo, perdendo terreno nei confronti degli altri mercati e perdendo opportunità per le proprie aziende”.

Inizia così la riflessione sull’attuale momentum economico dell’industria di marca con Francesco Mutti, presidente di Centromarca. “Non sono mai stato un uomo di istituzioni. Ma sono molto orgoglioso di questa carica che mi è stata offerta, se penso a coloro che mi hanno proceduto: da Luigi Bordoni, a imprenditori come Ernesto Illy, che hanno reso questa poltrona estremamente elevata, anche da un punto di vista culturale”.

Lei si dà un perché di quanto sta capitando all’Italia?

Concentriamoci sul reddito disponibile: siamo di fronte alla prima variabile che incide negativamente sull’evoluzione dei consumi interni. E questa situazione risulta essere un freno rilevante per tutte le imprese che sono attive soprattutto sul mercato italiano. Se il tuo mercato domestico non è il primo ricettore d’innovazione, intendendo con innovazione qualcosa di incrementale, riuscire poi ad attivarsi in Paesi terzi è davvero un’operazione complicata. Pensiamo al mercato alimentare tedesco, a com’era all’alba del 2000, uno scenario indietro anni luce rispetto all’Italia. Guardiamolo invece oggi: gli scaffali tedeschi come quelli olandesi hanno fatto un balzo straordinario.

E questo perché? Nel periodo in questione il reddito disponibile dei loro consumatori è cresciuto del 35%. Avere a disposizione un 35% di reddito in più (su una base di partenza che era già alta) permette a quei consumatori di entrare in un punto di vendita con un’attenzione alla qualità che è superiore. In Italia non è così, è tutto più complesso. L’attuale situazione che si è venuta a creare da noi è un freno forte per i consumi e per le aziende.

L’invecchiamento della popolazione quanto incide?

L’età media è senz’altro uno dei punti di debolezza del sistema, perché una popolazione senior ha dei costi sociali più elevati. L’invecchiamento comporta due questioni di fondo. La prima si riflette nella tipologia di consumi, più conservatrice, più prudente. Si registra così un rilevante incremento dei risparmi, che non vengono reinvestiti. Da un punto di vista imprenditoriale gli investimenti in conto capitale sono una scelta di coraggio, perché avviano l’impresa su una strada di evoluzione produttiva importante, spesso tailor made e, dunque, senza vere opzioni di ripensamento. Se ci concentriamo sui grandi numeri non possiamo non notare che esiste un problema generale di forte rallentamento della propensione al rischio, che incide negativamente sui flussi di denaro/ricchezza in movimento. Quando l’economia gira la quantità di denaro resta similare, ma il suo movimento è rapido. La prudenza, che poi diventa paura, rallenta fino a bloccare questo flusso.

Infine c’è tutto il capitolo legato alla denatalità, alla scomparsa della molla della privazione generazionale per dare un’opportunità di futuro migliore ai figli che verranno.

A proposito di grandi numeri: che fine ha fatto il grande mercato domestico europeo?

Un occasisone persa. Il percorso europeo è stato un cammino totalmente positivo che si è interrotto, bloccato, per affrontare questioni il cui ranking prioritario è spesso e volentieri irrisorio, mentre si sono lasciate sul tappeto criticità ben più rilevanti. Il risultato è che oggi per gestire uno dei mercati dei Paesi membri è necessario aprire delle società ad hoc. Negli Usa con una succursale ho tutti gli Stati Uniti a disposizione, in Europa non è così. E questo ha un costo per le imprese incalcolabile, legato a un’inefficienza tremenda, perché l’Europa è stata fatta solo per un pezzo. In più noi, come Paese Italia, abbiamo perso un’occasione irripetibile a cavallo degli anni Duemila quando sono stati restituiti di punto in bianco tre punti di pil sul debito. Un regalo che l’Italia avrebbe dovuto prendere e reinvestire. Abbiamo scelto altrimenti. Perdendo una grande opportunità.

Questa è dunque la stagione dei mercati Lontani?

Dipende dalle merceologie. Per tanti prodotti l’Europa continua a essere il mercato di riferimento, perché comunque -pur non avendo fatto i compiti a casa- non è redditizio per le imprese italiane uscire da questo mercato protetto per andare ad affrontare l’intero rischio altrove. Fare investimenti importanti fuori dall’Europa richiede grande cautela. Ci sono senz’altro opportunità, ma il rischio è certamente più alto. Se noi europei riuscissimo a dare vita a un mercato Ue che sia fattivamente migliore di quello degli Stati Uniti metteremmo le basi per una selezione di protagonisti d’impresa che sanno giocare perfettamente nel grande mercato domestico comunitario e che hanno tutte le carte in regola per ben figurare nella competizione globale.

La marca, secondo lei, i compiti li ha fatti?

Oserei dire che sì. Le marche i compiti a casa per affrontare mercati più ampi e di respiro internazionale li hanno fatti. Tenendo conto che ci sono le eccellenze e brand che sono più indietro. Ma vanno tenuti in conto anche i contesti: possiamo trovare scenari di economia sana, con visioni di medio-lungo termine, molto stimolanti e costanti. Altri contesti locali che lo sono meno. Da sempre in Italia tende a emergere di più la creatività individuale che la capacità organizzativa di sistema. Differenze culturali, certamente. Ma non bisogna mai sottovalutare le situazioni di partenza, in cui le opportunità sono minori. Quando uno inizia a pensare in grande in Italia, il grande italiano di solito è un grande molto piccolo. Se devo dare una valutazione oggettiva di taglia della mia stessa azienda, come la devo collocare?

Non ha l’impressione che la filiera sia troppo spesso usata per scopi difensivi?

Nella filiera io credo tantissimo, per generare valore, per contrastare l’eccesso di svalutazione che affligge il mondo alimentare, per generare un valore legato alla qualità, alla ricerca, alla sostenibilità, dove la divisione del valore avviene in modo più sano, più equo. Dobbiamo permettere a ogni anello della catena imprenditoriale di poter investire e crescere, fare sviluppo e non essere noi i primi responsabili di blocco. Io non ne ho mai dato una lettura protezionistica.

Passiamo a un evergreen: i rapporti idm e gdo.

I rapporti con la gdo da parte dell’industria di marca sono quelli normali che si riscontrano tra clienti e fornitori. Inevitabilmente nella natura del rapporto è compreso un elemento di difficoltà, perché c’è la questione della divisione del valore. Una situazione simile a quella che si prospetta all’industria, nel momento in cui imposta la sua strategia di filiera. La gdo ha il compito di immettere una sana pressione competitiva: con la consapevolezza, però, che generare una pressione eccessiva finisce per creare più perdite che benefici. Individuare qual è il livello di pressione ottimale è elemento di comprensione più facile per chi all’interno della filiera ci vive. Oltre il limite ultimo ci sono danni permanenti che non convengono a nessuno.

Soluzioni?

La dimensione della distribuzione è talmente spropositata rispetto a tutti gli altri attori da costringere a una continua sensibilizzazione del retail. In quali sedi e in quali momenti? È sempre molto difficile, però sta emergendo una pressione sociale che rende tutti più consapevoli che i conti non tornano più. Se nei vari comparti ci sono troppe aziende che stanno chiudendo e una piccola rimanenza che si limita a sopravvivere c’è evidentemente qualcosa che non va. Dobbiamo porci nuove domande. Non possiamo alimentare una guerra intestina al solo scopo di dare seguito a una progressiva e sempre più profonda svalutazione del cibo. Consideriamo infatti che alla base del fenomeno dello spreco alimentare c’è proprio una perdita del senso del valore alimentare. Insieme alla perdita, altrettanto progressiva, di una cultura condivisa della produzione alimentare.

Però il tema del momento sono le chiusure domenicali.

Quali sono davvero le motivazioni razionali per dire che i negozi devono stare chiusi la domenica? Credo, piuttosto, che in un’Italia che stenta oggi così tanto, dovremmo focalizzarci di più sulla generazione di valore. Facendo piuttosto attenzione a non deturpare l’ambiente.

Altro tema è quello delle marche del distributore. Siete pronti ad aprire loro le porte di Centromarca?

C’è uno storytelling eccessivo, credo, se consideriamo che la marca del distributore in Italia ha la quota di mercato più bassa d’Europa. Ci sono categorie merceologiche in cui la pl arretra, anche a livello europeo. Per essere un prodotto di marca devi essere un leader di innovazione. Sviluppare, far crescere, portare nel mercato nuovi motivi di consumo. Gli esempi mdd ci sono. Ma quello che manca tuttora è la costanza in questo modo di porsi. Nella stragrande maggioranza dei casi l’innovazione risiede ancora in casa dei marchi industriali. Ovviamente nel mercato ci sono anche imprese brave nella riduzione dei costi: ma questo è un altro modo di fare impresa. Il più delle volte legato alla selezione più che alla capacità di creare una produzione.

Cosa cambia per la marca con la digitalizzazione?

Dobbiamo stare attenti -come imprese- a non perdere di vista la visione dell’insieme per inseguire il dettaglio. Se noi prendiamo il numero di marche che sono riuscite a costruire in modo significativo tramite il digitale, nelle nostre merceologie -che incidono non poco nel giro d’affari complessivo- non vedo questo grande numero di esempi. Stiamo ai dati e leggiamo i dati. In tutto quello che è social c’è una mancanza di trasparenza che è veramente importante. È facile dimenticarselo: mentre per la comunicazione classica abbiamo tutta una serie di dati ufficiali che sappiamo come vengono raccolti, tutto quello che è social è in mano a terzi. Ci sfugge. E aggiungo una cosa: l’Europa sta trasferendo enormi flussi di denaro verso gli Stati Uniti. Perché? Perché in Europa abbiamo un’assenza totale di progettualità atta a costruire degli antagonisti? Una mancanza di visione terrificante? Faremo come Centromarca una Ceo-conference in cui l’elemento di riflessione sul digitale non sarà l’eCommerce, ma di prospettiva: analisi sull’organizzazione delle aziende, che cosa deve succedere per poter utilizzare il digitale nella comunicazione, nel marketing, nella relazione con il cliente, nella disintermediazione, nell’omnicanalità. La trasformazione che si mette in campo è significativa, in un contesto che non è più fatto solo dai fattori abilitanti (di tipo tecnologico), ma anche della comparsa di nuove valutazioni di opportunità, legati a fatti di cronaca che hanno iniziato ad aprire gli occhi alla popolazione sui rischi connessi a questi fattori abilitanti.

Cosa si propone nel suo mandato presidenziale?

Credo che ci siano alcuni temi importanti per le aziende associate: uno è proprio legato alla necessità di ricominciare a parlare del prodotto di marca, di ricordare che gli italiani ancora prediligono il prodotto di marca. È una cosa da ricordare, anche per onestà intellettuale, finché i dati lo confermeranno. Il secondo elemento è legato al nostro lavoro sull’estero. Alcune imprese non hanno nulla da imparare né devono essere ulteriormente stimolate, ma altre piccole e medie aziende italiane, come Mutti, possono trovare dalla collaborazione (non necessariamente dall’aggregazione) stimoli, riflessioni, indicazioni di cosa fare, ragionamenti di respiro europeo. Il terzo tema è quello delle fake news, il tema della distruzione di valore, che può passare da atti vandalici, pirateschi, sleali o di dolo. Sono convinto che la distruzione di valore sia un reato, che vada contrastato il più possibile.

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