Federalimentare: focus sul recupero del rapporto di filiera

centralità delle esportazioni in costante crescita. Aumenta l'interesse per il Made by Italy. Ma bisogna porre fine alla conflittualità intrafiliera. (da Mark Up n. 265)

Mentre  l’obiettivo  dei 50 miliardi di euro nell’export dell’agroalimentare sembra essere ormai vicino, ed il settore, a livello internazionale, è sempre più apprezzato non solo per i prodotti, ma anche per l’efficienza e la sostenibilità del modello produttivo, resta da lavorare sul miglioramento del dialogo intrafiliera. Ne abbiamo parlato con Luigi
Scordamaglia, presidente di Federalimentare.
Quali sono gli obiettivi che vi siete dati per il 2018?
Le sfide principali, una per il Made in Italy ed una per il Made by Italy, le abbiamo definite a inizio mandato, sostanzialmente in ambito Expo. Quanto al primo tema, la finalità è sempre stata quella di aumentare non solo quantitativamente, ma anche qualitativamente, le sportazioni agroalimentari, ovvero di accrescere il numero di aziende che riusciavano ad accedere ai mercati internazionali, soprattutto quelli molto lontani. Un impegno che si è poi sintetizzato nel famoso slogan dei ‘50 miliardi di euro di export nell’agroalimentare’.   E   devo dire che, ad oggi, siamo estremamente soddisfatti del risultato che abbiamo raggiunto: siamo cresciuti anche quest’anno di un ulteriore 7%, e siamo arrivati alla soglia dei 40 miliardi di euro. Le aspettative di raggiungimento del traguardo sono legittime.
È cresciuto anche il numero di aziende esportatrici?
Decisamente, anzi proprio la risposta da parte del mondo industriale è stato uno dei nostri più importanti successi, che conferma la bontà dei progetti sviluppati grazie al piano Made in Italy voluto dal governo. Penso, in particolare, alle diverse azioni promozionali che ci hanno consentito, soprattutto negli Usa (principale mercato target) di aumentare a scaffale gli articoli dei produttori italiani, accrescendo, come conseguenza, anche il numero di aziende esportatrici nell’area. Ma intendiamo fare ancora di più per aumentare la diffusione delle gamme Made in Italy negli States, per esempio spingendo sulla lotta all’Italian sounding.
In che modo?
Principalmente attraverso una comunicazione mirata, che va a spiegare perché un prodotto che di italiano ha solo una bandiera o un colore stampati sulla confezione, non abbia nulla a che fare con il vero Made in Italy.
Ma sarà sufficiente?
Eh, il problema è che fino ad ora, presso i consumatori statunitensi, non c’era neppure
la consapevolezza che ci fosse differenza fra Made in Italy e Italian Sounding. Mentre ora, grazie anche allo sforzo fatto da noi in termini di promozione, c’è attenzione all’origine del prodotto, e soprattutto c’è voglia di comprare italiano perché piace la storia che c’è dietro al prodotto, insomma lo storytelling funziona e interessa.
Per il Made by Italy?
Da Expo in poi abbiamo cominciato a spiegare che non siamo solo tipicità enogastronomiche, ma che la nostra filiera è fatta anche di macchine agricole, di food processing, insomma che abbiamo innovazione tecnologica, unita ad un elevato livello di sostenibilità. Per cui oggi, e anche in futuro, Federalimentare promuoverà sia il prodotto tipico italiano, sia il sistema che sta alle spalle di quel prodotto.
Che tipo di risposta state avendo, su questo fronte?
I riscontri sono decisamente positivi. Sempre più Paesi, dalla Russia, all’Africa, al Sud America, ci cercano perché vogliono applicare il nostro modello alla loro produzione di commodity. Si tratta di nazioni, cioè, che devono aumentare la resa, ma a basso impatto ambientale, e che per questo si rivolgono ad un sistema come il nostro, che si è legittimato come filiera estremamente efficiente ma sostenibile. Un risultato ottenuto grazie anche ad un altro punto chiave cui abbiamo lavorato, ovvero quello di ridare la giusta dignità a questo settore.
Ci spiega meglio?
Abbiamo voluto far capire, perché non era così chiaro, che l’agroalimentare è un settore centrale per l’economia di questo paese, e che non è una specie di Cenerentola del sistema economico, a lungo percepita come un business troppo legato alla tradizione. Voglio esser chiaro: la tradizione, nell’agroalimentare, è certamente importante, ma va associata anche allo sviluppo tecnologico che, come detto, non manca e ci viene finalmente riconosciuto.
Dove fare meglio nei prossimi tempi?
Sicuramente vogliamo concorrere a migliorare la comunicazione nel settore, cercando di contenere quel modo di fare informazione urlato o scandalistico che troppo spesso si è visto sui media, televisione in primis. Un’informazione, peraltro, che, sulla scia delle mode del momento, ha spesso preso di mira e fatto una propaganda negativa di certi settori alimentari. Nonostante il nostro impegno per limitare questi fenomeni, contrapponendo ad essi un’informazione il più possibile pacata e oggettiva, ci rendiamo conto che, su questo fronte, c’è ancora molto da fare.  Infine, ultimo punto, non meno importante, su cui vogliamo concentraci è quello di recuperare un rapporto di filiera. È tempo di porre fine alle conflittualità intrafiliera, aprendosi ad un maggior dialogo con la produzione agricola nazionale.

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