Flat tax non è la gara a chi lancia l’aliquota più bassa

Gli opinionisti di Mark Up (da Mark Up n. 272)

Ritengo penosa la vicenda della flat tax. Un anno fa circa, l’Istituto Bruno Leoni e Nicola Rossi, in modo organico e dettagliato proposero una riforma fiscale complessiva -dentro la quale trovava posto un’aliquota unica al 25%- che avrebbe rappresentato un’evoluzione positiva nelle relazioni tra cittadini e Stato. Una proposta che l’attuale governo, con i soliti accorgimenti mediatici, avrebbe potuto fare propria (cambiando qualche nome, qualche meccanismo, qualche cifra). Purtroppo, da subito, in campagna elettorale abbiamo assistito, invece, a un confronto muscolare su chi proponeva l’aliquota più bassa, come se la questione fosse davvero trovare il numero magico. L’aliquota d’imposta flat è un pezzo della storia, neppure il più importante, visto che la ridistribuzione si fa principalmente con la spesa pubblica e non con il prelievo: si sovrastima il rilievo dell’art. 53 Cost., essendo la progressività solo uno strumento mentre l’obiettivo è la solidarietà di cui all’art. 2. “Quanta” solidarietà dipende, poi, dalle propensioni espresse dalla collettività in un determinato momento storico. La proposta dell’Ibl suggeriva anche di semplificare e rendere più efficiente il sistema ipotizzando che chi può paghi alcuni servizi da sé, nella logica che al crescere del reddito lo stato non toglie di più, ma dà di meno. Di tutto ciò non c’è traccia nel dibattito attuale. L’unico cambiamento che si percepisce è nel linguaggio: “contratti” (di governo) che non sono contratti, reddito di “cittadinanza” che non è di cittadinanza (perchè subordinato alla prova dei mezzi), flat tax che non è flat (sono previste almeno 2 aliquote). Non va bene.

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