Gli investimenti cinesi in Italia: minacce o opportunità?

Alcuni mesi fa il panorama economico italiano è stato colto di sorpresa dalla notizia che, sulla base di accordi in corso, il controllo della Pirelli sarebbe passato nel giro di pochi mesi nelle mani della cinese Chem China. Ora, l’articolo di Micaela Cappellini sul Sole 24 Ore di Lunedì 22 Giugno rivela che gli investimenti cinesi in Italia sono stati, nel 2014, il 27% del totale degli investimenti esteri affluiti in Italia e, secondo la Banca Dati Reprint costruita da R&P, Politecnico di Milano e Università di Brescia e diretta dal Prof. Mutinelli, riguardano 322 aziende.

Queste imprese operano nei settori più diversi, e comprendono sia alcune strutture storiche della produzione industriale italiana (come la stessa Pirelli, la Ansaldo Energia e la Ferretti yacht), sia imprese minori operanti nei settori più diversi (compressori per frigoriferi, carrelli elevatori, calcestruzzi, macchine per imballaggi, alimentare, ecc.). Sono significative, infine, le partecipazioni in alcune imprese di gestione delle grandi reti nazionali (di distribuzione di elettricità e gas in particolare) controllate dallo Stato italiano attraverso la Cassa Depositi e Prestiti ed il controllo delle filiali italiane di grandi aziende internazionali, quali Volvo, H3G e Marionnaud (profumerie).

Di fronte a questa così diffusa e rapida crescita di presenze molti si chiedono come debba essere considerato questo fenomeno.

Innanzitutto, da aziendalisti, non è possibile generalizzare: sono evidenti, infatti, le differenze tra i casi di acquisto di aziende in crisi (come nel caso di Ferretti group) o quelli in cui l’intervento estero ha contribuito anche alla ricomposizione di una proprietà frazionata, in cui alcuni attori avevano necessità di rientrare del proprio investimento e non avevano acquirenti tra i loro colleghi soci. D’alto canto, tuttavia, sembra utile sottolineare alcuni elementi di vantaggio che l’intervento dei soci cinesi rappresenta per ulteriori investimenti dei venditori delle quote e per la continuazione e l’espansione delle attività di molte imprese nazionali.

Per quanto attiene al primo aspetto, è evidente che la possibilità per i venditori di disporre di risorse monetarie prima immobilizzate consente l’assunzione di nuove scelte di investimento che in ogni caso alimentano nuove attività nazionali: nello stesso territorio italiano o anche estere, ma comunque controllate da operatori nazionali. Anche nel caso in cui i venditori sono istituti finanziari dalle nuove disponibilità finanziarie deriva una spinte all’economia reale se non altro per la possibilità di ampliare le linee di credito.

L’effetto ora richiamato non è legato, però alla specifica provenienza dei capitali investiti nelle imprese italiane e varrebbe, infatti, per investimenti realizzati da un qualunque operatore estero. L’elemento, perciò, più significativo è rappresentato dalle possibilità che gli investimenti cinesi possono offrire allo sviluppo delle imprese italiane.

Anche in questo caso non si può generalizzare. Tuttavia, di fronte ad un mercato globale il cui baricentro si è significativamente spostato verso Est, c’è da chiedersi quali siano le condizioni perché molte imprese italiane di successo possano effettivamente cogliere l’opportunità della crescita in questi nuovi mercati. L’ingresso e lo sviluppo in queste realtà richiede non solo capacità di marketing o di produzione, ma, necessariamente, anche risorse monetarie disponibili per il finanziamento (necessariamente anticipato rispetto ai ritorni attesi) della crescita dei volumi produttivi, se non addirittura per la creazione di sedi commerciali, industriali o di ricerca applicata all’interno stesso dei paesi di sbocco. E, però, quale è la dimensione relativa delle attività attuali delle imprese rispetto alla dimensione reale del mercato cinese o dell’insieme dei mercati del far east che quella base controlla?

Molte imprese italiane, pur avendo dimensioni operative già delineate sulla base di una presenza non secondaria in mercati esteri, dovrebbero affrontare salti dimensionali dell’ordine da uno a quattro se non da uno a otto o dieci. E questo fabbisogno di risorse monetarie richiede necessariamente di essere coperto almeno in parte con capitale proprio, che non impone l’obbligo di restituzioni a breve in misure predeterminate.

Dunque, fatta sempre salva l’impossibilità di generalizzare, l’intervento di operatori cinesi è da considerare come un’opportunità, almeno per le imprese che hanno già una forte propensione allo sviluppo internazionale e che possono, attraverso questo intervento, attuare piani di sviluppo nei nuovi mercati del far east in condizioni di adeguato equilibrio finanziario. Probabilmente, questo non è accaduto negli anni precedenti nel caso di alcune imprese italiane che occupavano anche posizioni di leadership nei rispettivi mercati e che, nel mezzo di programmi di sviluppo finanziati soprattutto con debiti, si sono ritrovate con impegni di pagamento che ne hanno minato l’equilibrio monetario ed hanno portato alla perdita non soltanto delle occasioni di sviluppo, ma anche delle attività storiche.

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