Il Management nell’era della Green Economy

Sebbene la green economy sia un tema dal notevole fascino e offra attraenti potenzialità di mercato, il management non sembra poter contare su strumenti e approcci all'altezza della sfida. Si può uscire da questa impasse seguendo le "impronte ambientali"

Imprese che trasformano il proprio modo di produrre, approvvigionarsi, vendere, e consumatori che cambiano radicalmente le proprie scelte di acquisto: è questo il senso profondo della Green Economy, al di là delle più evocative, quanto superficiali, narrazioni del fenomeno.
Anche nei mercati e nei settori oggi considerati di frontiera, tuttavia, la transizione verso nuovi stili di management adeguati ai modelli di produzione e di consumo "sostenibili" è solo all'inizio e procede a rilento. A frenarne lo sviluppo non è né la difficoltà degli imprenditori a comprendere la rilevanza del tema ambientale su un piano culturale e strategico, e quindi la loro riluttanza a investire risorse nella cosiddetta "eco-innovazione" di prodotti e processi ad alti costi, né tantomeno la scarsa maturità e sensibilità dei consumatori, da cui discenderebbe una bassa propensione a scegliere prodotti green e dunque una difficoltà degli imprenditori a fare della questione ambientale il perno di nuove strategie di marketing.
Secondo gli studi più recenti, sono altre le barriere da superare, e molto più concrete.
Da un lato, praticamente tutti i settori produttivi e i mercati soffrono di una forte distorsione nel prezzo dei prodotti, che non è in grado di riflettere i costi legati all'impatto ambientale delle filiere produttive da cui essi originano. Accade così che, nel bel mezzo dell'era della Green Economy, le imprese che inquinano di più sostengano costi fissi e variabili inferiori (scaricando quelli ambientali sulla collettività), poiché non investono in innovazione, potendosi quindi permettere di fissare prezzi più bassi per i propri prodotti. In assenza di correttivi, questo garantisce loro migliori performance competitive, soprattutto in una fase decisamente recessiva come quella attuale, in cui la concorrenza di prezzo ha molta presa su un consumatore più attento alla convenienza dei prodotti. Anche il manager più consapevole sotto il profilo ambientale, difficilmente accetterebbe di lanciarsi nella competizione sul mercato con una tale penalizzazione. Finché gli inquinatori godranno di vantaggi di costo e di prezzo così marcati, i tentativi di competere su altri asset (qualità ambientale dei prodotti, reputazione, garanzie sociali ed etiche) risulteranno vani.
Dall'altro lato, si aggiunge alla mancata internalizzazione dei costi sociali un problema di credibilità. Per convincere i mercati a premiare i prodotti green, a maggior ragione nei periodi di crisi, occorrono motivazioni fondate e molto spesso le imprese non sono in grado di fornirle. Fra i tanti indicatori che fotografano questa lacuna, ve n'è uno particolarmente significativo, sviluppato da National Geographic. Il "Greendex" 2013 dimostra che la prima ragione in assoluto, per cui i 14.000 consumatori intervistati non scelgono prodotti "sostenibili", è l'inaffidabilità chiaramente percepita nelle dichiarazioni dei produttori (che farebbero "false claims"). Si tratta del ben noto fenomeno del greenwashing, ovvero della propensione delle strategie di marketing a valorizzare una presunta reputazione ambientale, non supportata da un impegno reale e da performance migliori rispetto ai concorrenti. Finché non si riuscirà a fare piazza pulita delle strategie di marketing ambientale più o meno consapevolmente ingannevoli, le armi competitive delle imprese che si impegnano davvero e investono risorse sulla sostenibilità rimarranno spuntate.
Esistono soluzioni che consentano di uscire da questa duplice impasse?
La Commissione Europea ne ha recentemente sperimentata una, dalle notevoli potenzialità. Con la Raccomandazione 2013/179/CE è stata ufficialmente introdotta nell'Unione Europea la Product Environmental Footprint, l'impronta ambientale dei prodotti e dei servizi. Diversamente da quanto accade oggi nella gran parte delle campagne di marketing, la Commissione Europea sostiene che l'impatto di un prodotto vada misurato con precisione e rigore scientifico, considerando i diversi problemi ambientali su cui esso può incidere lungo tutto il suo ciclo di vita, dall'estrazione delle materie prime e delle risorse naturali che vengono impiegate nella fase produttiva, fino al termine della vita utile del prodotto. Il risultato cui la metodologia conduce è una rosa di indicatori relativi alle principali categorie di impatto ambientale (emissioni di gas ad effetto serra, efficienza nell'uso delle risorse, impronta idrica, etc.) che il produttore può utilizzare nella comunicazione di marketing e nei confronti del mercato, ma anche a supporto della progettazione del prodotto, nel supply chain management e come driver delle decisioni di investimento.
L'obiettivo è chiaro: chi è in grado di offrire al mercato prodotti meno inquinanti deve poter mostrare chiaramente al consumatore che ad un prezzo relativamente superiore corrisponde però un rilevante vantaggio ambientale, e quindi un costo inferiore per la collettività. E deve essere capito, creduto e premiato dal consumatore.
Molte sono le imprese che hanno raccolto questa sfida (Carlsberg per molte proprie birre, Luxottica per gli occhiali Rayban, etc.), ma la vera incognita rimane legata alla reazione dei mercati, ovvero dei "destinatari" dell'impronta ambientale. Saranno disposti i comuni cittadini, non esperti della materia, a dare fiducia ad uno strumento certamente autorevole, ma non semplice da comprendere e adottare come guida nelle proprie scelte di consumo?

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