Il tempo delle marche nativamente digitali

I PROTAGONISTI – L'anima sociale del brand è necessaria per progettare una fisicità nella quale l'elemento digitale sia integrato ab origine. Tutto avviene attorno alla community (da MARKUP 220)

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Negli ultimi 15 anni abbiamo assistito, nel marketing, a un cambio epocale nelle modalità di customer approach, poiché si è passati da una logica di marketing transazionale a un approccio sempre più relazionale che poi, affinandosi, è divenuto esperienziale.
L'assunto di partenza di questa virata strategica nasce dal fatto che più l'esperienza del cliente all'atto d'acquisto è sentita, multisensoriale, coinvolgente, interessante ed emozionante, e più il processo di acquisto viene sollecitato da elementi extracognitivi. Ciò è particolarmente importante in contesti, quali quelli maturi, in cui la differenziazione su elementi tangibili appare particolarmente difficoltosa; oppure in quei settori in cui gli elementi di differenziazione sono mutevolissimi e difficili da seguire per il consumatore che quindi, per effettuare la sua scelta, si affida al brand (pensiamo alla telefonia) o, ancora, in quei comparti in cui, a causa della loro peculiare natura, la reason why che orienta la preferenza non può che essere legata alla sfera emozionale e non cognitiva. Ci riferiamo, per esempio, a tutti i luxury brand, nel food come nel fashion, nei servizi turistici come nella cosmesi. Questi marchi, il cui valore è fortemente connesso a benefici di natura emozionale e il cui acquisto, squisitamente di origine positiva, rientra senz'altro nella sfera dell'approvazione sociale, sono significativamente symbol intensive.

Il negozio
Per soddisfare questo paradigma, il punto di vendita, sino a qualche anno fa, è stato considerato il luogo di eccellenza. In esso si poteva esprimere al meglio l'approccio emozionale per determinare l'holistic experience del cliente, attraverso un mix calibrato di sperimentazioni sensoriali fisiche, emozionali, di relazione, ben oltre che cognitive.
Lo store, infatti, è il luogo fisico in cui brand e consumatore si incontrano, vengono a contatto, ed è il contesto determinante per il proseguo di una futura, positiva relazione. Fortunati, dunque, quei brand che potevano e possono godere il privilegio di un canale diretto, in cui le leve attivate e le loro modalità di azione rispondono esattamente, in qualità, quantità ed intensità alle logiche di marketing attentamente progettate dal management. Per questi brand, i propri store si sono evoluti, virando verso il retailtainment e spostando l'attenzione verso la ricerca dell'intrattenimento nell'ambito del brand frame work: si potrebbero fare centinaia di esempi, dai Disney store ai Lego store, da Ikea ai negozi Nespresso e così via.

Soluzioni alternative
Per quei brand, invece, e sono i più, nei quali l'attività distributiva risulta mediata dal canale breve, o, peggio ancora, da quello lungo, la possibilità di veder implementate le attività di customer involvement pensate dal brand marketing management sono piuttosto scarse, almeno nella vivacità con cui erano state pianificate, e comunque, oggetto di faticosa negoziazione nella relazione tra industria e distribuzione. Di conseguenza, l'industria ha pensato a soluzioni alternative finalizzate a raggiungere direttamente il cliente, almeno nelle location nevralgiche e segnaletiche, allo scopo di enfatizzare il brand world e nel tentativo di trasferirlo integro nel suo portato di valori ed emozioni: i flagship store, i temporary store, gli shop (o corner) in shop, sono tutti esperimenti leggibili in questa chiave.
A seguito di queste premesse, si comprende come il digitale abbia radicalmente modificato lo scenario e gli equilibri tra gli attori coinvolti. Agli albori, timidamente, con il "sito-vetrina", il web ha offerto alla marca l'opportunità di presentare se stessa e la propria identità, per mezzo di un monologo privo di interazione, ma almeno diretto. Poi, attraverso la nascita dei primi social network, inizialmente poco compresi (tranne alcune eccezioni) nella loro sconfinata potenzialità e, quindi gestiti separatamente dal sito.

L'approccio relazionale
Ora, man mano che cresce il numero dei social media, aumenta l'attenzione dell' impresa verso il nuovo paradigma ispirato alla relazione: e il mezzo dà forza al relational approach anche per quelle imprese che ci sono arrivate in ritardo.
Si moltiplicano vorticosamente le presenze ufficiali di brand su piattaforme social, inizialmente in maniera forse poco strutturata, poco pianificata, ma poi sempre più integrata rispetto a un piano di comunicazione più ampio, dai contorni strategici, che spesso sfora nella sfera commerciale (considerando la vendita online estemporanea, magari legata a specifiche campagne di lancio e/o attività promozionali, o strutturata in un vero e proprio e-commerce).
Il brand management che ha creduto maggiormente e da subito sulle potenzialità del digital, sfrutta ora un vantaggio poco colmabile, stabilendo un dialogo e una conversazione costanti con i propri fan e con i propri prospects, fino ad arrivare alla collaborazione partecipativa.
In questo itinerario evolutivo del digitale, la modifica dei device attraverso cui il cliente si accosta al mondo virtuale, dal pc ai tablet e, infine, agli smartphone (che il cliente considera un ambito strettamente personale), consente ai social media sempre maggiore enfasi nella loro capacità di propagare passioni ed emozioni. Attraverso i social media oggi i brand vivono una metamorfosi verso l'umanizzazione, assumono una vera voce, raccontano storie, condividono aspetti di sé che in passato erano conoscibili solo a una ristretta cerchia di addetti ai lavori, diffondono contenuti in grado di stimolare un'interazione spesso interessante. In una sola parola, creano COMMUNITY in cui il collante, il denominatore comune, è la passione per il brand.

Piattaforme di valore
I brand si impongono, dunque, come le nuove piattaforme relazionali, in grado di generare valore nel percepito dei consumatore, tramite la condivisione di esperienze in grado di produrre affezione e vicinanza e che, in definitiva, consentono un'imperdibile opportunità di differenziazione e redditività per le imprese in grado di implementare questi nuovi sistemi.
L'emergere di questi nuovi modelli provoca una modifica dei rapporti tra i soggetti della filiera: il consumatore assume un ruolo da protagonista passando da target a Soggetto (con la S maiuscola) in grado non solo di influenzare, ma anche di guidare il rapporto con la stessa. Egli diventa partner del brand, e, quindi concorre alla creazione del brand value. Infatti, dalla condivisione e dallo scambio di idee partono progetti di co-creazione, in cui il consumatore partecipa alla progettazione di nuovi modelli, nuove soluzioni, nuove ricette e così via.

Ma c'è di più.
Nell'ambito della co-creazione si può leggere il fenomeno della customerizzazione ossia una personalizzazione dell'offerta sulle esigenze specifiche del cliente, guidata dal cliente stesso. Nell'abbigliamento, le esperienze di questo genere sono ormai diffusissime da Geox a Nike, a Polo Ralph Lauren e così via. Ma se ne possono apprezzare anche nell'industria dell'elettrodomestico, dell'auto ed anche nel food. Si fondono quindi le due dimensioni di consumer e producing, dando vita, quindi, al fenomeno del prosuming.
Ma ciò avrebbe un senso circoscritto a pochi se non esistesse quella nuova trama di legami sociali fondata sulle passioni, che consente di co-valutare e sperimentare queste attività, bocciandole o promuovendole e ancora confrontandosi su bocciature e promozioni.
Relazioni multiple
L'obiettivo primario del marketing management diviene quello di costruire una relazione continuativa, capace di rinnovarsi, con il consumatore "multicanale", che, dal canto suo, desidera relazionarsi con il brand attraverso multipli touch point di accesso, mischiando (a seconda della innovatività del proprio approccio e della propria capacità di evolversi verso nuovi modelli) modalità tradizionali e consolidate a nuovi modi interattivi.
Dunque oggi la sfida è avvicinare modelli tradizionali ed innovativi fino a farli fondere, in una visione sistemica. Non basta alimentare i blog, curare il sito, essere presenti nei social network, fare web communication, creare App, così come non basta curare gli store layout, l'atmosphere, il merchandising, il display del prodotto o la comunicazione in store: non si può lavorare a compartimenti stagni. La demarcazione tra gli aspetti e le specificità dei canali diviene sempre più labile e limitata e i touch point, a qualsiasi sfera, materiale o immateriale, appartengano, devono convergere verso esperienze e contenuti poliedrici ma identitari, che alimentino, come indicato nel nostro modello, unicità, positività, forza ed astrazione del marchio, consolidando ed incrementando la brand equity.

Applicazioni recenti
Esempi virtuosi in tal senso si stanno concretizzando proprio in quest'ultimo anno. Lo store Burberry di Regent Street a Londra è un'utile case history. Tra i primi negozi realmente nativi digitali, qui l'enfasi sulla tradizione e l'heritage del brand transita attraverso le forme più innovative di comunicazione e assistenza al cliente. Attraverso il claim "Bringing Burberry.com to life", lo store si presenta con 500 display e 100 specchi digitali, strategicamente posizionati, allo scopo di creare scenari sonori e visivi davvero suggestivi e richiamare eventi culturali, tenutisi in ogni parte del mondo, connessi alla marca. Il brand è esaltato attraverso sfilate in ologrammi e presentazioni di prodotti limited edition mentre l'utilizzo degli iPad da parte di addetti alla vendita e consulenti di moda consente di accedere alla cronologia degli acquisti dei clienti e fornire così un'esperienza di shopping personalizzata. L'Rfid su capi e accessori permette l'animazione di specchi che si accendono, trasformandosi in schermi interattivi personalizzati e riproducono filmati inerenti alle metodologie sartoriali di produzione proprio sullo specifico articolo specchiato, dalla cucitura all'applicazione dell'etichetta tessuta, fino alla presentazione del capo finito in sfilata, con richiami a immagini di produzione antiche, di repertorio, in bianco e nero, che narrano la storicità della casa. Una vera celebrazione della capacità artigianale British, raccontata anche attraverso la descrizione visiva delle modalità costruttive e di allestimento dello store.
Infine, il pagamento avviene, ovviamente, in zone accoglienti e comode, provviste di divani e tecnologie mobile, mentre i bambini hanno a disposizione tavoli interattivi con iPad ed App per disegnare.
Ebbene è la prima volta che entrando in un negozio abbiamo la sensazione di penetrare in un web site e viceversa. Atmosfere, elementi iconografici, jingle, tutto richiama, enfatizza e sublima il brand, nella centralità del cliente che ha la sensazione che, proprio per lui, venga inscenato uno spettacolo unico, dalle coreografie stupefacenti, coinvolgente ed emozionante, seppure estremamente efficace anche in termini di servizio. Ma non è tutto: le esperienze di acquisto vengono tracciate attraverso l'utilizzo di sensori e analisi di dati contestuali e comportamentali, consentendo un field on going, un'analisi puntuale, così come è possibile mappare la navigazione nell'ambito del web. Il sistema decisionale di marketing può quindi beneficiare di dati copiosi e aggiornatissimi, come mai prima d'ora.

Nativamente digitali
Non basta dunque una postazione nel punto di vendita per fare un hiper shop, ma è necessario progettare il negozio con modalità nativamente digitali, in cui la store experience sia integrata ab origine, per fare un vero salto di qualità. È necessario eliminare gap e step tra i canali, creando collegamenti esperienziali e conversioni tra i punti di contatto, generando esperienze della marca coerenti con i molteplici contesti di vita del cliente.
Ma i business model e le funzioni strategiche all'interno delle aziende stanno modificandosi adeguatamente? Si è sviluppata la consapevolezza che la capacità di gestire un modello multicanale è ormai imprescindibile e che lo sbocco naturale delle nuove modalità di interrelazione con il cliente sono gli ambienti propri del web 2.0?.
In Focus Management godiamo di un osservatorio consistente e variegato nell'industria di marca. Ma rileviamo che pochi dispongono di un digital management davvero evoluto ed integrato nella funzione marketing. Molti gestiscono le attività digitali, quasi per dovere, totalmente in outsourcing, perdendo probabilmente il vero beneficio che si genera proprio dalla sinergia sistemica che si ottiene dall'integrazione.
Invece strumenti è contenuti devono necessariamente fondersi in un meccanismo complesso causa-effetto senza soluzione di continuità, on going: Adv, word of mouth, Pr, retailnment, social media, prosuming, direct mailing, eventi, App, blog, e-commerce, m-commerce. Tutto può fare brand experience se possibile in una modalità così customizzata, da divenire, per il cliente, MY BRAND EXPERIENCE.

Conclusioni
Per quel che vediamo, una possibile causa di questa inerzia evolutiva nell'industria è data dalla presunta difficoltà di misurare gli effetti delle iniziative digitali e, soprattutto, distinguerli da quelli generati dalle modalità tradizionali di go to market e comunicazione.
Ma, in realtà, si tratta di un falso problema. Esistono già, le utilizziamo, metriche (quantitative e qualitative) collaudate, che consentono di misurare il valore del digital. Inoltre, per mezzo della metodologia Structural Equation Modeling (SEM), attraverso quindi delle regressioni multiple, è possibile analizzare affidabilmente fenomeni complessi e articolati e misurare come ed in che misura i diversi antecedenti (tra cui il digital) contribuiscano a creare valore per il brand. ■

Allegati

220_Digital_branding

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