In Google we (Anti) – Trust

 

Quartier generale a Mountain view, fondata da due genialoidi di Stanford, il suo motto è “Don’t be evil”.

Sì, certo, dicono tutti così… il 27 giugno 2017 la Commissione Europea ha sanzionato Google, controllata dalla holding Alphabet, per 2,42 miliardi di euro. Secondo il Commissario per la Concorrenza, Margrethe Vestager, il colosso dell’informatica avrebbe “abusato della sua posizione dominante dando sistematicamente maggior risalto al proprio servizio di comparazione dedicato agli acquisti online, declassando i risultati dei concorrenti e alterando il processo di scelta dei consumatori”.

Forse la Commissione è stata un po’ severa; in fondo Google è una delle imprese più innovative al mondo e offre moltissimi servizi utili, diffusi, e “ad un prezzo pari a zero”. A queste condizioni, “santa Google”, cosa ha fatto per meritarsi la sanzione antitrust più elevata della storia? Facciamo un po’ d’ordine. Per prima cosa, santa – mica tanto, perché è vero che gli utenti possono utilizzare i servizi di Google senza pagare in moneta, ma in cambio, consapevolmente (ormai, si spera) o meno, cedono i propri dati. Capirai, che i servizi di Google non fossero gratuiti c’era da aspettarselo, è un’impresa profit oriented e l’economia poggia sullo scambio – business is business, e sui Big Data la chiudiamo qui. La ratio della sanzione, il vero nodo, è un altro. Big G offre molti servizi, (Gmail, Maps, YouTube, solo per ricordarne alcuni) ma indubbiamente il prodotto di punta è il suo motore di ricerca, Google Search. Ora, molte aziende diversificano la propria produzione e operano su più fronti, ed in ciascun mercato trovano concorrenti, fornitori e clienti diversi; un’arena competitiva di volta in volta nuova e specifica. E quando si offrono numerosi prodotti e servizi può anche capitare che alcuni abbiano successo, ed altri no.

Bene, ci siamo: nel caso in argomento rileva la circostanza per cui, nel 2004, Google è entrata nel mercato dei servizi di “comparison shopping”, piattaforme digitali che offrono la possibilità di confrontare prodotti e prezzi offerti da retailers di ogni tipo, un po’ come una grandissima vetrina online. Il servizio offerto da Google si chiamava – complimenti per la fantasia – Froogle, in seguito rinominato Google Product Search e, da ultimo, Google Shopping. Diversi altri operatori erano già presenti in tale mercato, con i propri siti di comparazione online. Il problema per il colosso statunitense risiedeva nel fatto che, mentre il suo motore di ricerca riscuoteva un gran successo, Froogle, al contrario, non riusciva a decollare, e gli utenti preferivano utilizzare i siti di comparison shopping offerti dai concorrenti. A fronte di tale situazione, Google ha risposto facendo leva sul prodotto nel quale era molto forte (dominante, in gergo antitrust) per estendere il suo successo anche nel mercato in cui era più debole (appunto quello dei servizi di comparazione online). Del resto, è un po’ come al supermercato: se un prodotto si trova su un ripiano centrale, ben visibile, al centro del negozio, avrà un successo diverso rispetto a quello che otterrebbe se fosse relegato in un angolo, nascosto tra la polvere di uno scaffale così alto (o così in basso – e basso non a caso) di cui a malapena i dipendenti conoscono l’esistenza.

Tornando a noi, quando si cercano informazioni sul web attraverso un motore di ricerca, questo fornisce un certo numero di risultati, (spesso molto elevato) distribuiti attraverso un ranking. Ma qual è il criterio, l’algoritmo che stabilisce l’ordine di questi risultati? Chi decide quali voci compaiono ai primi posti, in prima pagina, e quali invece nelle pagine successive (che normalmente gli utenti trascurano)? Secondo la Commissione, Google gode di una posizione tale da consentirgli di alterare il normale gioco della concorrenza “on the merits”, con ricadute sui processi decisionali dei consumatori. In altri termini, Google decide chi sopravvive e chi no: in quanto motore di ricerca più importante e maggiormente utilizzato, con una quota di mercato superiore al 90% , ha di fatto tra le mani le sorti di moltissime imprese: se decide che un prodotto, un brand, un’azienda merita di essere visualizzata per prima, in cima alla pagina dei risultati – un brindisi per lei, il mondo saprà che esiste e probabilmente avrà successo; viceversa, se quella voce finisce dispersa tra le pagine di Google, dove verosimilmente pochi utenti andranno a cercare, la sua probabilità di ottenere elevate performance è compromessa.

A valle delle indagini condotte dalla Commissione, indovinate un po’ quale – tra i tanti siti di comparison shopping – finiva sistematicamente in bella vista, in cima al ranking di Google? Quello di Google! La sanzione arrivata da Bruxelles è dovuta al fatto che il servizio di comparazione dedicato agli acquisti online di Google ha avuto, a partire dal 2008, un trattamento regolarmente privilegiato rispetto ai medesimi servizi di comparazione forniti dai rivals. Oltre alla sanzione, la Commissione ha imposto al colosso di Mountain view di interrompere la sua condotta entro 90 giorni e di astenersi da qualsiasi comportamento che abbia un effetto equivalente.

Certo, la questione è complessa, Google ha già presentato ricorso, e non è chiaro quale sia (né se esista) l’algoritmo che fornisca un ranking dei risultati “oggettivamente giusto”. Per adesso, comunque, il diavolo veste Prada, Google (al di là del suo motto) si è dimostrata un po’ “evil", e 1-0 per l’Antitrust europeo.

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