In ritardo di 15 anni. Ripartiamo?

INTERVISTA DI COPERTINA – La cornice della soluzione è comune a quella degli altri Paesi avanzati: riprendere a crescere mentre le eccellenze spostano la produzione nei Paesi emergenti. Con tre ricette semplici per riavviare il mercato del lavoro (da MARKUP 213)

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Chi è Giacomo Vaciago

Considerato uno dei maggiori economisti italiani, nasce a Piacenza il 13 maggio 1942. Laureato nel 1964 all'Università Cattolica di Milano, ha successivamente conseguito il Master of Philosophy in Economia a Oxford. Professore incaricato e poi titolare della Cattedra di Economia politica presso l'Università di Ancona, nel 1989 rientra alla Cattolica come ordinario di Politica economica, per poi diventare direttore dell'Istituto di Economia e Finanza. È stato più volte consulente del Governo e, dal 1994 al 1998, sindaco di Piacenza. Da trent'anni è editorialista del Sole 24 Ore.sui temi della politica europea e agroalimentare, ha presieduto dal 2001 al 2004, l'Istituto di Studi Economici "Nomisma". È coordinatore scientifico del Centre International des Hautes Etudes Agronomiques Mediterranéens (C.I.H.E.A.M.) di Parigi ed è, inoltre, socio della European Agricultural Economics Association (EAEA) e della Società Italiana di Economia Agraria (SIDEA). Ha ricoperto il ruolo di ministro delle Politiche agricole prima nel governo D'Alema (dal 1998 al 2000) e poi nel governo Prodi (dal 2006 al 2008).

 
     

 

Potrebbe esordire con un "io l'avevo detto". Essendo un signore, oltre che uno dei maggiori economisti italiani, Giacomo Vaciago evita l'argomento; ma vale la pena di ricordare che esattamente un anno fa, proprio su queste pagine, il professore parlava di scarse possibilità di ripresa nel corso del 2012.
"Il motivo è semplice - diceva allora - ed è da ricercare in un errore di fondo: abbiamo confuso, in Italia ma anche in altri Paesi europei, la crisi con la recessione. E convinti di essere in recessione abbiamo agito come se la ripresa fosse un fatto scontato, cosa che in effetti accade nei normali cicli dell'economia".
Da allora molte cose sono cambiate: in Italia, in Europa e nel mondo. Basti pensare al governo Monti e alle riforme portate avanti negli ultimi mesi, al nuovo ruolo della Banca Centrale Europea guidata da Mario Draghi nel contrasto alla corsa incontrollata degli spread, alle politiche monetarie espansive della Fed. A dodici mesi di distanza, nulla è più come prima. E la crisi, nel pieno del suo momento peggiore, lascia intravedere uno spiraglio di stabilizzazione e ripresa solo nel corso del 2013.
La prima domanda che rivolgiamo a Giacomo Vaciago non può che partire da queste considerazioni.

La crisi che stiamo vivendo si articola su tre diversi livelli: globale, dell'eurozona e dell'Italia. A che punto siamo e che tempi prevede per l'uscita?
Tutte e tre le crisi (quella globale, quella dell'Eurozona e la nostra) hanno in comune due aspetti: la diffusa negligenza nei confronti della qualità di un'economia di mercato e l'autocompiacimento delle autorità di governo per i precedenti successi. Mi spiego meglio.
Negli anni '90 e fino al 2008 è prevalsa l'ideologia che tutto ciò che assomigliasse ad un mercato fosse solo per ciò buono. Anche se il mercato neppure c'era, come nel caso di tanti prodotti finanziari direttamente infilati nei portafogli di risparmiatori (e investitori!) che non erano in grado di capire cosa fossero.
A loro volta i Governi e le tante Autorità si vantavano di essere capaci e di avere molto successo. Consiglio ai miei studenti di rileggere The Great Moderation (2004) di Bernanke; ed il Bollettino della BCE (giugno 2008!) in cui si "celebrava" il primo decennio dell'Euro: l'Eurozona non avrebbe potuto andare meglio! Poi, tre mesi dopo fallisce Lehman e si alza lo "spread" sulla Grecia. Ciò detto, quando e come ne usciamo? Dovremmo prima avere una diagnosi condivisa sui problemi irrisolti che la crisi - iniziata 5 anni fa - ha sottolineato.
Dal mio punto di vista, e ciò vale soprattutto per l'Italia, ma in qualche misura per tutti i "Paesi avanzati" (Stati Uniti ed Europa), il problema è semplice da capire, ma difficile da risolvere: come torniamo a crescere, visto che il nostro meglio sempre più cresce (cioè sposta la produzione ) nei Paesi emergenti?

Con quale ruolo l'Italia può agire nei tre differenti livelli?
Soprattutto nell'Eurozona, ma in certa misura anche a Washington, l'Italia conta se è in grado di promuovere e fare giochi cooperativi: io massimizzo l'interesse del mio Paese, tenendo conto di quello altrui. Sono cose che Mario Monti ha ben imparato negli anni passati a lavorare a Bruxelles, ed è questo il principale vantaggio che ci è venuto dal suo Governo. Il successo del vertice a Bruxelles di fine giugno - nel suo obiettivo di guardare avanti, e non di occuparsi solo del passato - è stato molto merito suo.

Le mosse di Draghi e lo scudo anti-spread possono davvero rilanciare l'economia anche in Italia? La mia personale opinione è che la sola leva monetaria non sia sufficiente.
Le Banche Centrali non possono risolvere problemi politici (come si distribuiscono sui cittadini costi e benefici), né tanto meno i veri problemi reali (come si aumenta il trend di crescita della produttività). Ma aiutano con i loro interventi dando "più tempo" ai Governi, affinché trovino le soluzioni necessarie. Draghi ci ha messo un anno, ma alla fine ci è riuscito: era indispensabile evitare la fine della moneta comune, già evidente nel fatto che l'Euro aveva un valore diverso nei diversi Paesi membri dell'Eurozona. Tale era infatti il significato economico e politico degli spread che si applicano ad un titolo di credito (pubblico o privato) a seconda del "Paese di residenza" del debitore. La Bundesbank è rimasta affezionata ad una visione economica del passato, in cui l'unica cosa che conta è il valore dell'Euro rispetto ai prezzi dei beni. Secondo la Bundesbank poiché non c'erano 17 inflazioni diverse, non c'era nulla che la Bce dovesse o potesse fare. Per fortuna, c'è voluto un anno, ma alla fine tutto il Consiglio della Bce (con un solo voto contrario) ha accolto una visione "moderna" della moneta comune secondo la quale la "legge del prezzo unico" deve applicarsi anche ai titoli, ed al credito, e non solo ai beni.
Detto ciò, basteranno gli interventi di Draghi a rilanciare l'Italia? Ovviamente, no. Consiglio di rileggere la "lettera" che Trichet e Draghi mandarono il 5 agosto 2011 al Presidente Berlusconi. Non c'era ovviamente un impegno scritto, ma lo scopo di quella lettera era ovvio: se avessimo iniziato a fare, in modo credibile, un po' di quelle riforme e di quelle politiche, in cambio la Bce avrebbe acquistato i nostri titoli per ridimensionare lo spread che ci danneggiava.
Abbiamo perso un anno. La lettera dell'agosto 2011 è stata un "fiasco" (identico a quello ottenuto con Madrid, perché una lettera molto simile la Bce l'aveva mandata anche a Zapatero), e adesso siamo di nuovo a dover formalizzare meglio un approccio simile: la Bce compra titoli dei Paesi che si impegnano con l'Europa a fare ciò che serve per avere i benefici (e non solo i costi) dell'Euro.

In caso di crescita ancora asfittica quali altri interventi sono indispensabili per far riprendere il nostro Paese? In che modo è possibile rimettere denaro in tasca agli italiani e quindi favorire il rilancio economico interno?
Vale ciò che era implicito nella risposta precedente. Siamo entrati nell'Euro, quindici anni fa, senza avere mai fatto le riforme e le politiche indispensabili per avere dell'Euro anche i benefici, e non solo i costi. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: è da quindici anni che l'Italia non cresce. E l'Euro passa come "capro espiatorio" di tutto ciò. Mentre i problemi sono ovviamente ben più grossi: occorre adeguare il Paese, cominciando da ciò che abbiamo al nostro servizio - e quindi dalla Pubblica Amministrazione e dai servizi pubblici - alle moderne tecnologie, e conseguenti guadagni di produttività. Abbiamo ancora un mare di carta, di biro, di fax, di lettere raccomandate; e si perde un'infinità di tempo a girare per uffici pubblici che non servono a risolvere, ma a complicare, i problemi dei cittadini. E il bello è che questo - che dovrebbe essere il primo problema e quindi il primo dovere di chi ci governa, ad ogni livello, dal più generale al più locale - è la cosa di cui nessuno da troppi anni si occupa. Se il Paese non funziona in modo efficiente, non è attraente e quindi nessuno viene qui ad investire (chi già c'era, sta chiudendo). E poiché il nostro meglio cresce altrove (e guai se non lo fa), il risultato è che il Paese non può crescere. La ricetta - ma lo dico da molti anni - è una sola: tornare ad essere un Paese attraente, affinché poi ci si specializzi in ciò che sappiamo fare meglio, e lo facciamo per una "domanda interna" misurata dal potere di acquisto di 330 milioni di persone. Sono tutti coloro che hanno in tasca euro da spendere: è ancora in termini di soldi e di qualità, il primo mercato al mondo. Questo era il "progetto euro" agli occhi dei padri fondatori, da Delors a Ciampi, da Padoa Schioppa a Prodi. Purtroppo, l'attuazione non è stata all'altezza del progetto. Abbiamo perso 15 anni, ma possiamo ancora farcela. Quando iniziamo?

La riforma del mercato del lavoro non rischia nel breve periodo di avere effetti negativi sull'occupazione (le aziende si apprestano a chiudere i contratti con le partite Iva, più che regolarizzarli) e di riflesso sulle capacità di spesa degli italiani?
La "riforma Fornero" è sostanzialmente giusta, ma applicata in fretta e male. Mi spiego meglio. È sembrata a noi imposta - come la riforma delle pensioni - dalla pressione dei mercati finanziari, spaventati di un nostro possibile "default". Questo era il clima, non dimentichiamolo, degli ultimi mesi dell'anno scorso. In realtà, la riforma, almeno nelle intenzioni del Ministro e con il consenso di molta buona analisi economica, voleva migliorare il funzionamento del mercato del lavoro (qualcosa che era indicato come necessario già nel Rapporto Delors del 1989, per avere i benefici dell'Euro) riducendo i dualismi tra tutelati e sfruttati e agevolando l'incontro tra domanda e offerta di lavoro e relativa tutela nel passaggio da un'occupazione a un'altra. Il rischio era evidente a fine 2011, quando l'economia era già in recessione, che una riforma siffatta non fosse adatta a condizioni di crisi. Sarebbe stato molto meglio averla fatta cinque anni prima: anche di ciò ha colpa il Ministro Fornero?

Il crollo dei consumi è figlio solo della crisi economica o di una maggiore attenzione a come e cosa si consuma? Abbiamo forse capito che prima sprecavamo troppo?
Mentre la crisi 2008-9 è stata soprattutto dovuta a un crollo della produzione, con poca perdita di occupazione e di consumi, da due anni è il reddito distribuito che si riduce e quindi la contrazione dei consumi è molto forte. Chi aveva fatto troppi debiti, adesso deve risparmiare di più, anche a parità di reddito. E in più c'è chi ha perso reddito e, quindi, pur usando il risparmio come ammortizzatore è costretto a ridurre i consumi. Non vedo proprio una "virtuosa parsimonia", nel vero e proprio crollo dei consumi che va dall'auto (si fa durare di più quella vecchia; nonostante i tanti bei nuovi modelli che l'industria sforna) al tessile (ci si veste alla cinese, facendo finta che sia di moda) fino all'alimentare (dove si riduce la qualità di ciò che si compra, rinunciando ai marchi migliori).

Anche il settore della grande distribuzione inizia ad avere problemi legati al calo dei consumi, e in qualche caso inizia la contrazione anche nei discount. Ci sono contromisure possibili o è solo un effetto momentaneo?
Ovviamente la grande distribuzione se ne accorge meno, ma non può essere esente da una caduta di reddito e di consumi così pronunciata. Vedo però più a rischio le tante nostre botteghe dei centri storici, che hanno ancora costi in aumento (a cominciare dai servizi pubblici che ricevono) e fatturati in riduzione. Il pericolo maggiore è quello del circolo vizioso: caduta dei consumi; chiusura dei negozi del centro storico; conseguente degrado urbano; e quindi ulteriore caduta dei consumi, soprattutto nelle aree meno pregiate. L' abbiamo già visto succedere altre volte, anche in altri Paesi, quando la recessione originava anche da precedenti eccessi immobiliari che già avvenivano a spese di alcune parti della città.

Esiste una ricetta possibile per riavviare davvero il mercato del lavoro senza gravare sulle casse dello Stato?
Nel breve periodo nessuno può fare miracoli, cioè far aumentare l'occupazione senza far prima aumentare la domanda, riducendo le tasse e/o aumentando la spesa pubblica; due cose ambedue improbabili nei prossimi tempi. Ma potremmo almeno migliorare le aspettative dei consumatori, stabilendo alcune regole. Ne propongo tre, di assoluta priorità. Primo: ogni euro incassato in più, grazie alla minor evasione, verrà "restituito" a chi ha più visto aumentare le sue tasse negli ultimi tre anni. Al di là dei bei proclami teorici, è ora di dimostrare in modo concreto che chi evade ruba ai contribuenti onesti.
Secondo: gli uffici pubblici dove è maggiore il consumo di carta verranno tutti chiusi nel giro di tre mesi. Sono revocate tutte le promozioni a dirigenti del settore pubblico avvenute negli ultimi dieci anni. Terzo: i risparmi realizzati con quanto attuato nel punto precedente saranno destinati alla riduzione del cuneo fiscale.
Anche se queste tre cose non saranno di dimensione enorme, basteranno ad indicare che abbiamo capito cosa frena la nostra economia e che intendiamo iniziare a porvi rimedio. Ciò farebbe molto bene alle aspettative degli italiani.■

ml@ilsole24ore.com

 

 

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