Inclusione della diversità come leva di sviluppo

L’impatto di una strategia di pensiero e operatività allargata a ogni elemento di diversity produce valore dentro l’azienda e fuori. Un vero brand empowerment (da Mark Up n. 277)

Pensare che l’attuazione di politiche di diversity & inclusion in azienda sia solo un dovere morale è un errore. In realtà, pur se può apparire cinico affermarlo, l’inclusione è un “buon affare” perché genera valore anche economico come gli studi più recenti mettono in luce. Un valore che si realizza sia in termini di capacità innovative all’interno del perimetro, sia in termini di attribuita dai clienti. Reputazione che tende a trasformarsi in fiducia.

In termini di fidelizzazione al brand correlata alla reputation, giunge, quest’anno alla seconda edizione, la ricerca di Focus Management denominata Diversity Brand Index, che ha come obiettivo la definizione di un indice che misura il livello di inclusione dei brand rispetto ai consumatori finali. Accanto a ciò, la ricerca studia l’impegno delle imprese circa la D&I mediante una ricerca avvenuta con una fase attraverso il web e una seconda fase con la valutazione di progetti e iniziative effettivamente realizzati dalle aziende. L’indagine via web è stata effettuata attraverso il metodo Cawi su un campione di 1.035 rispondenti. Occorre precisare che i cluster considerati dal Diversity Brand Index sono 7: ageing, disabilità, etnia, gender, orientamento sessuale, religione e status socio-economico. La ricerca si è svolta domandando al target quanta consapevolezza avesse sul tema e quindi il grado di coinvolgimento. Dalle risposte sono stati tratti 6 cluster: gli arrabbiati, gli indifferenti, gli idealisti, i consapevoli, i coinvolti e gli impegnati. Confrontando come sono cambianti i diversi cluster tra il 2018 e il 2019, appare come il cambiamento sia la sola costante di questa epoca: a distanza di 12 mesi i risultati sono differenti. Gli arrabbiati quasi raddoppiano e passano dall11,3% del 2018 al 21,4% del 2019. Si dimezzano gli indifferenti (da 8,3% a 4,3%) e crollano a meno di un terzo gli idealisti (dal 15,3% al 4,3%). Più statica la situazione dei cluster maggiormente consapevoli: i coinvolti si riducono dal 27,3% al 22,5% mentre gli impegnati dal 24,6% salgono al 28,8%. Si assiste a un fenomeno di polarizzazione dove c’è sempre meno spazio per l’idealismo astratto e maggiore consapevolezza di ciò che accade. Questo è dovuto a una molteplicità di fenomeni ma, prevalentemente all’esperienza diretta con questo tipo di fenomeno che cambia lo scenario: da una percezione a un’esperienza. Secondo Focus Management, titolare della ricerca, il confronto con i dati dell’edizione precedente permette di rilevare come la popolazione italiana abbia raggiunto un livello di familiarità con le forme di diversità medio-alta anche se il coinvolgimento è sempre un gradino sotto la percezione (come registrato nella prima edizione). In altre parole è maggiore la conoscenza teorica dell’esperienza pratica. Ciò che è rilevante è che si assiste a un fenomeno di migrazione da un cluster ad un altro: molti “idealisti” diventano “arrabbiati”, molti “indifferenti” passano a “consapevoli” e alcuni “coinvolti” passano a “impegnati”. Incrociando il quadro descritto circa il gradimento da parte degli italiani per i brand inclusivi e i risultati del sondaggio si ha conferma che circa metà del campione sceglie in modo convinto brand inclusivi. Cala la percentuale di persone che hanno preferenze per brand che investono sulla D&I, con un coinvolgimento moderato (28% nel 2019 vs. 23% nel 2018). In aumento la frazione degli insensibili che passano dal 20% nel 2018 vs. 26% nel 2019. La diminuzione della fascia intermedia dei soggetti più “passivi” è un fenomeno marcato. Tale posizionamento impatta positivamente sulla reputation e genera la fiducia nel brand e si conferma il primo driver nella costruzione della brand equity.

I brand inclusivi impattano positivamente sui consumatori

Un dato su tutti: i brand che parlano di inclusività o ne traggono beneficio oppure non determinano elementi di negatività sulla base clienti non sensibile al tema. Questa è la tesi di Emanuele Acconciamessa, chief operating officier di Focus Management. Mark Up lo ha incontrato per commentare la seconda edizione del Diversity Brand index.

In 12 mesi il sentiment degli italiani appare in movimento...

Uno dei risultati più interessanti è che una parte dei soggetti idealisti è migrata nel cluster degli arrabbiati ma al contrario, questi soggetti che non avevano nulla in contrario all’inclusione si sono spostati verso il cluster consapevole. Ma anche vi è stata una migrazione verso il cluster impegnato, quello che è concretamente applicato in questo mondo nella quotidianità.

Va bene, ma come traduciamo questa dinamica?

Calano i cluster intermedi. Da una parte si assiste a una polarizzazione verso l’avversione, dall’altro verso l’impegno concreto. I motivi possono essere diversi ma, secondo me, il dibattuto politico degli ultimi mesi ha avuto un peso rilevante. L’aver posto il focus sul tema della diversità in un’ottica di repulsione ha influenzato i punti di vista e le opinioni. Gli idealisti, con un processo di disincanto si sono spostati nel cluster degli arrabbiati.

E i brand come hanno inciso?

Pesantemente. Nell’ultimo anno la comunicazione ha spinto molto sull’inclusione e parlando con i consumatori, il risultato in termini di maggiore sensibilizzazione è emerso in termini positivi. Il motivo è che lo schierarsi di un brand sull’inclusione ha un impatto positivo.

Come si spiega?

Sostanzialmente se un brand fa comunicazione basata sull’inclusività, impatta positivamente su chi è sensibile al tema, mentre risulta indifferente su chi sceglie già quel brand ma è insensibile all’inclusione.

Comunicare l’inclusione non presenta l’insidia di inclusion-washing simile al green-washing?

Il rischio è presente. Il consumatore è molto attento ai brand che parlano di inclusione ma non fanno nulla per conseguirla. Il rischio è scongiurabile agendo su due fronti: essere consistenti all’interno dell’azienda con attività di supporto all’inclusione per i dipendenti; in secondo luogo comunicarlo all’esterno costruendo cultura.

Francesco Oldani

 

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