Inflazione cattiva, quella importata

Gli opinionisti di Mark Up (da Mark Up n. 273)

Se si prescinde dai toni e si guarda ai contenuti e alla cifra logica dei ragionamenti, quest’autunno di legge di stabilità sembra più freddo che tiepido (certo, non caldo). Contro l’Europa, le agenzie di rating e le istituzioni internazionali il fuoco è intenso e costante. Rumoroso sì, ma poco efficace. Sono colpi a salve. Mancano, infatti, visione e progetti alternativi allo status quo: la flat tax è l’odierno regime dei minimi con soglia di ricavi più elevata, il reddito di cittadinanza è un’estensione dell’attuale Rei, larga parte della “Fornero” non c’è già più grazie ad Ape, Ape social e 8 salvaguardie, l’accordo Ilva è stato chiuso su “protocollo Calenda” e i vaccini per i bimbi saranno obbligatori. C’è, invece, una novità, rilevantissima quanto trascurata: la crescita dei prezzi derivante dal rafforzamento dei prezzi del petrolio, grazie agli accordi Opec di circa un anno fa. Il greggio oggi costa tra l’8 e il 15% in più rispetto a gennaio (75-80 dollari rispetto ai 69 di gennaio). L’apprezzamento del dollaro, tra l’altro, lo rende ancora più costoso in euro (indebolimento della nostra valuta attorno al 6% nel 2018). Quindi, l’inflazione accelera, ma solo per la parte cattiva, cioè quella importata che trasferisce risorse dai paesi trasformatori a quelli esportatori di materie prime. Attraverso il prezzo dei carburanti (e non solo), questo fenomeno impatta sul prezzo medio degli acquisti in alta frequenza, cui le famiglie sono sensibili in termini di potere d’acquisto reale e percepito. La contrazione del reddito reale attuale e prospettico determina la stagnazione dei consumi e, quindi, una minore crescita. Sta già accadendo, come dicono i dati Istat sul primo semestre di quest’anno.

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