Intuizione? No, meglio studiare e poi azzardare

Le otto lezioni per crescere di Michael Silverstein, senior partner e managing director consumer practice Boston Consulting Group (da Mark Up 250)

Poca intuizione e molto studio. Michael Silverstein porta in Italia, Rocket: 8 lezioni che, assicura, possono garantire una crescita infinita. Silverstein si rivolge a tutti: start-up in cerca di successo, imprese sulla strada del rinnovamento, manager che vogliano cambiare il destino di un’azienda. Presuntuoso? Forse, ciò non toglie che ogni tanto una ventata di onnipotenza non faccia male.

Rocket enuncia 8 lezioni per la crescita nel retail: quanto a lungo rimarranno valide?
Per sempre, Rocket mira alla perpetuazione e descrive elementi che non hanno età. Un esempio? La prima regola che riguarda la Customer Understanding, era vera in passato, è vera oggi e tale rimarrà da qui a 100 anni.

Prendiamo la regola n°1, “Non chiedete ai clienti che cosa vogliono” (perché non lo sanno finché non glielo dite): basta una buona intuizione e un po’ di pressing e il gioco è fatto?
Non credo molto nell’intuizione, credo invece in una comprensione profonda e viva del consumatore. In Bcg la chiamiamo segmentazione: comprendere la tipologia di utenti, le occasioni d’uso, le alternative e le sostituzioni in caso di rottura di stock, le insoddisfazioni dei clienti. Le idee buone le hanno in molti, quello che manca sono i mezzi per realizzarle concretamente. La regola n.1, quindi si potrebbe tradurre così: procurati una concreta base fattuale, comprendi rigorosamente il mercato consumer e crea risposte all’insoddisfazione. Se in questo gioco si vuole stare dalla parte dei vincitori, è meglio sapere prima se c’è o meno un buon target per la nostra idea, occorre conoscere profondamente il mercato nel quale ci si avventura. La storia di Victoria’s Secret descritta nel libro ne è un buon esempio.

A proposito di Victoria’s Secret, lei la cita come esempio da seguire, ma il modello femminile proposto non è un po’ “old fashion”? E i negozi uguali a sé stessi ovunque nel mondo?
Il successo di Victoria’s Secrets dipende dal fatto che la catena ha compreso profondamente i bisogni delle donne. Il target, prettamente femminile, dell’insegna, vive i prodotti come regalo per sé stesse, con un brand di lusso e apprezza le novità visto che da VS c’è un flusso continuo di nuove creazioni. I negozi sono uguali perchè l’obiettivo è offrire un’esperienza d’acquisto simile ovunque Quello che cambia è l’offerta: dai 3.500 mq di New York, con 100.000 referenze ai negozi locali da 700 mq con un assortimento molto più limitato; diversi anche gli articoli proposti a Miami da quelli in assortimento a NY. Io non credo affatto che il retailer basato sulla riproducibilità di un modello sia morto. Anche in Whole Foods si avvantaggiano delle economie di scala, benché i manager regionali abbiano autonomia in tema assortimentale, oltre il 60% è uguale ovunque.

Per i big box, quale futuro vede?
Dipende di quali big box stiamo parlando. Walmart è un’azienda di grande successo, che vanta una posizione fortissima tra il 40% degli utenti Usa, apprezzate da una ampia maggioranza di famiglie, che lo considera un fornitore low cost estremamente affidabile. Il suo punto debole è che non cresce molto e il consumatore cui si rivolge è stato la principale vittima della crisi. Walmart però sta facendo un lavorio eccelso nel servire questo mercato. Ha scoperto a proprie spese che l’espansione all’estero offre molte più sfide di quella domestica. È il retailer più grande al mondo, penso che sia un’azienda fantastica che ha le potenzialità per incrementare la propria profittabilità.
Costco è il maggiore tra i titolari di negozi big box: ha una politica di prezzo unica che mira alla fascia alta della classe media. Di conseguenza, sono i retailer più convenienti su certi prodotti di fascia alta perché hanno un limite per il cross margin del 40%.
Macy’s è il department store di maggior successo in Usa, anche se il modello stesso non è tra i più riusciti. Negli ultimi anni la scelta è stata quella di tagliare le categorie merceologiche, una razionalizzazione che ha razionalizzato anche i clienti. Chi gestisce Macy’s però ha molte idee e crede realmente di poter rivitalizzare l’insegna facendone un competitor multicanale, tramite le offerte via web.

Amazon?
Amazon è un problema per tutti i retailer, i quali hanno costi fissi di operatività che Amazon non ha. È un sistema conveniente per fare acquisti che conta già su 40 milioni di clienti Prime che si collegano ad Amazon prima di andare al lavoro. Jeff Bezos ha ambizioni che nessun altro retailer ha: crede che non esista categoria di beni che lui non possa vendere. Ha investito in tecnologia, servizi web, nei computer: e gestisce il tutto esattamente come un business retail molto aggressivo nel pricing.

Si può dire che l’esperienza d’acquisto rimane in bilico tra online e brick&mortar?
Non sono d’accordo con chi crede che l’online decreterà la fine del retail in senso tradizionale. L’uomo è una creatura sociale, apprezza ogni interazione, vuole toccare le cose e, per alcune categorie di prodotto, l’acquisto fisico rimane e rimarrà la soluzione più semplice.

Come evitare gli errori?
La maggior parte delle imprese spende circa l’80% delle risorse in rinnovo e il restante 20 in innovazione. Penso sia assurdo, la percentuale dovrebbe essere 50 e 50: è necessario dare ai ricercatori carta bianca, 5 categorie sulle quali lavorare. Occorre andare oltre ciò che si fa normalmente, perché, se si ha successo in una di queste 5 categorie, avremo creato un prodotto completamente nuovo che si tradurrà in un 100% di crescita per l’azienda.

Errori della marca?
La memoria dei consumatori è molto breve e il tempo di recupero per un errore del brand in genere è sovrastimato. Non importa quanto sia grave l’errore: in capo a un anno nessuno lo ricorderà più e dopo due anni sarà superato. Va affrontato con sicurezza, maturità e sincerità.

Ci parla della schismogenesi?
Il termine è stato coniato da un antropologo polacco che ha studiato gli indigeni delle isole del Sud Pacifico, arrivando alla conclusione che la relazione tra le persone in quel contesto non è stabile, ovvero può avere alti e bassi. È la stessa relazione che le persone hanno con la marca, come in un matrimonio. Ogni giorno, il consumatore si chiede: cosa ha fatto la marca per me oggi? Si è presa cura dei miei bisogni? E così l’incuria della marca, il dare per scontato che quel consumatore sarà sempre lì, uguale a se stesso nel tempo, la mette nella condizione di rischiare un brutto divorzio che potrebbe costarle caro molto a lungo.

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