La pasionaria dell’ortofrutta

La storia di Annabella Donnarumma, amministratore delegato di Eurogroup (Gruppo Rewe), la sua carriera, i suoi sogni per un’agricoltura italiana sempre più internazionale (da Mark Up n. 270)

‘‘Mio papà mi voleva medico, pensava che ci fossero delle professioni migliori di altre ... Il medico l’ingegnere, studiare lingue”. Annabella Donnarumma è quel che si dice una forza della natura: impetuosa, diretta, entusiasta; a lei piace definirsi “appassionata” del lavoro e della vita. Oggi è alla guida del braccio ortofrutticolo italiano di Gruppo Rewe (fatturato 2017 49.4 miliardi di euro, +8,3% rispetto al 2016), la incontriamo al convegno “Qualità allo Specchio”, organizzato a Macfrut dall’associazione Donne dell’Ortofrutta, della quale è membro onorario.

Annabella vive a Verona, ma torna ogni fine settimana a casa, a Castellammare di Stabia (Na): ama il suo mare e la terra dove è cresciuta. E questo non le ha impedito di partire per la sua grande avventura. “Sin da piccola sognavo di imparare il tedesco, ma alla fine accontentai mio padre e mi iscrissi a medicina. Dopo il primo anno, malgrado avessi dato gli esami con ottimi risultati, mi dissi che quella non sarebbe stata la mia strada. Così mi iscrissi a lingue, ogni anno passavo qualche mese in Germania. Alla fine mi sono laureata con il massimo dei voti e alla mia festa di laurea incontrai una persona, amica di mio padre, che mi mise in contatto con l’amministratore delegato di Eurogroup Italia. Questa persona faceva tanta fatica a trovare qualcuno che conoscesse il tedesco e soprattutto che avesse voglia di andare in Germania a fare uno stage. Ho fatto il colloquio e mi ha mandato tre mesi alla sede di Rewe. Era il 1992”.

Però nel commercio ci sei nata ...

Mio papà, con i fratelli e il nonno lavoravano già come commercianti a Scafati (Sa), una realtà molto importante, in quanto scalo commerciale, dal quale passava molta ortofrutta: la ferrovia di Scafati era un punto di raccolta per mandare i legumi in Germania quando ancora andava tutto su vagoni; l’uso della gomma è cominciato solo da pochi anni.

Avevano un magazzino, commercializzavano la merce che conferivano gli agricoltori della zona. Quando il nonno ha smesso di lavorare, mio papà ha fatto una riflessione, a posteriori sbagliata ma per quei tempi assolutamente comprensibile, ovvero, avendo tre figlie femmine, nessuno avrebbe portato avanti il suo lavoro; per questo ha pensato di chiudere l’attività e dedicarsi ad altro, anche perché diventava molto impegnativo e probabilmente non vedeva una continuità nella sua famiglia. Io sono la figlia maggiore di tre: le mie sorelle sono entrambe laureate, una in architettura e una in economia e commercio, subito dopo la laurea, hanno fatto due bambini ciascuna e, da buone donne del Sud, sono rimaste a casa ad accudire mariti e figli; hanno pensato forse troppo tardi di iniziare a lavorare, ma la realtà del Sud è complicata soprattutto per le donne. Io? No, non ho avuto figli, ma coccolo i miei nipoti.

Essere una donna nel tuo mondo quanto è difficile? È cambiato nel tempo?

Sì, qualcosa è cambiato: quando sono arrivata, ero una ragazzina di 24 anni, ero vista come la segretaria e assistente, per un po’ di tempo è stata dura perché le persone non mi prendevano sul serio.

Parlavi tre lingue, ti chiedevano il caffè ...

Esatto, l’ho fatto il caffè, poi ho deciso che così non andava e ho cambiato azienda ... Adesso le donne ci sono ... Anche se, nella cerchia dei miei collaboratori più stretti, ci sono solo uomini, è una questione di tempo: infatti, fino all’anno scorso, prima che arrivassi io, le ragazze erano proprio “in cattività”, costrette a fare le assistenti. Io ho riconosciuto il valore di tre o quattro di loro: ciascuna parla 3-4 lingue, sono determinate, vogliono dimostrare che ci sanno fare. Infatti alla fiera Rewe hanno avuto un grandissimo successo, sono tutte bellissime ragazze ... Anche il fatto che uno per essere bravo, deve essere brutto ... Lo sento per le mie colleghe oggi come lo sentivo per me: quando a 30 anni, portavo la minigonna, c’era sempre qualche commento. Vorrei chiarire: apprezziamo che qualcuno ci faccia un complimento, però dobbiamo andare avanti: oltre alle gambe, c’è di più.

Hai lasciato Eurogroup ... E poi?

Noi allora eravamo dei moscerini. Eurogroup era una società della Rewe ma non al 100% solo al 20%, e dentro c’erano cinque società: Rewe, Coop Svizzera, Gb1 a Bruxelles (successivamente diventata Carrefour ma allora era belga), una società olandese che si chiamava Vendex Food Group e anche un gruppo francese. Cinque Paesi con cinque società e nessuno che si prendeva la briga di far crescere il gruppo: era di tutti e di nessuno.

Nel 2007, sono entrata in crisi perché il direttore, nel frattempo, aveva coinvolto le due figlie e il genero, e ho capito che nonostante tutto quello che avevo fatto e stavo facendo probabilmente non sarei arrivata da nessuna parte. Non sapevo ancora cosa fare, ma sapevo che me ne sarei andata. Nell’agosto 2007, mi chiamò un collaboratore di Nino Bocchi, che mi chiedeva un incontro. Andai, non avevo nulla da perdere: un lavoro l’avevo e non avevo nessuna voglia di trasferirmi a Verona. Il colloquio durò ben due ore e mezza. Forse sono presuntuosa, ma lui era entusiasta, io avevo una grande faccia tosta, come adesso; lui ci sapeva fare e non potevi dire di no; quindi, nonostante dovessi riorganizzare la mia vita ... dissi di sì.

Avevo già 41 anni, ma nessuna paura di cambiare: andavo in una città che non conoscevo, per un’azienda della quale avevo sempre sentito parlare molto bene. Certo, anche lì erano tutti uomini ... All’inizio non ero direttore commerciale, ma mi occupavo del commerciale, perché in realtà c’era Nino Bocchi e tutto il mondo sotto, con tutti i commerciali quasi allo stesso livello. Lui però era già molto malato e ad agosto 2008 ci lasciò.

Il ricordo dell’ultima volta che incontrai Nino Bocchi ancora mi emoziona: mi diede due pacche sulle spalle, quasi ad infondermi la sua energia e, parlando con l’amministratore delegato, disse che da quando ero arrivata non aveva più dovuto parlare con la rete, che c’ero io ormai a fare questo; per me fu come se mi avesse affidato una missione da portare avanti e, dopo quattro anni, sono diventata direttore commerciale export.

... ma poi sei tornata ...

Ero sempre a Verona anche se viaggiavo, perché eravamo un’agenzia; Rewe era il nostro primo cliente. Nel frattempo, l’azienda era passata di mano: prima come Univeg e poi divenne (ed è tuttora) Greenyard Fresh Italy. Anche Eurogroup era cambiata: liquidati tutti i soci, aveva deciso di potenziare l’ufficio e plasmarlo secondo i bisogni del Gruppo. Non solo Rewe Colonia, anche Billa Austria e Billa dei Paesi dell’Est, Penny Italia, Penny dei Paesi dell’Est. Insomma, un gruppo enorme.

Fu così che nell’aprile del 2016 mi chiesero di tornare. Salutai così la famiglia che avevo costruito in Univeg e, qualche mese dopo, firmai con Rewe dove nell’aprile 2017 sono entrata come amministratore delegato.

Come ti descriveresti come leader?

Professionalmente sono molto severa: esigo tanto, prima di tutto da me stessa e pretendo che le persone mettano a frutto tutta la loro intelligenza e capacità; non ammetto che una persona lavori solo al 20% delle proprie potenzialità.

Se c’è una cosa che non sopporto è proprio la pigrizia, il disinteresse. Forse per questo faccio un po’ paura a chi non mi conosce. So che non è sempre facile: posso essere molto ingombrante, me ne rendo conto.

Passiamo ai fornitori: cosa bisogna fare per essere internazionali in un mercato come quello dell’ortofrutta?

Basta semplicemente seguire le direzioni commerciali. Cerchiamo di convogliare il ritiro delle merci presso grandi fornitori strategici che contemporaneamente possano fornire Rewe in Germania, Billa in Austria e Penny in Italia, perché le esigenze dell’Italia sono diverse da quella della Germania e un fornitore deve riuscire a rispondere a tutte. Noi, in Italia, per esempio, mangiamo un prodotto più maturo, che in Germania verrebbe bocciato. Negli anni, soprattutto nell’ultimo, abbiamo selezionato certe tipologie di fornitori che, secondo me, sono in grado, con la loro gamma di articoli, di venire incontro alle esigenze di tutti.

Come vedi il futuro della distribuzione?

Vedo che anche qui, al Sud, dove eravamo più resistenti e dove si tende ad andare dal fruttivendolo di fiducia, la distribuzione moderna si sta imponendo sempre più, soprattutto i discount, probabilmente perché tanta gente non arriva alla fine del mese. Qui le famiglie sono spesso monoreddito. Non c’è più posto per i piccoli, perché non hanno né la forza né la mentalità per crescere, un peccato.

Una ricetta per il Sud?

Il Sud non ingrana. Sono convinta che se ci fossero più donne nei posti decisionali la società sarebbe migliore, perché noi donne abbiamo la capacità di armonizzare il contesto. Gli uomini spesso sono più concentrati sulla propria carriera che a fare il bene dell’azienda per cui lavorano. Le donne però devono essere sempre più indipendenti: cerco sempre di coltivare nelle mie giovani colleghe il concetto di indipendenza. Imparare a decidere con la propria testa e non sperare che arrivi il principe azzurro che compri loro la borsa di Hermès: se la vogliono, se la devono comprare da sole, con i propri sacrifici!

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