La porta della cultura si apre alle imprese

Dare vita a legami profondi con il territorio, argomentare la qualità, entrare in profonda empatia con il consumatore: molte opportunità in ottica di food slow feeling (da Mark Up n. 257)

Cibo e cultura possono essere i grandi driver per lo sviluppo del Made in Italy: una verità semplice da condividere, ma non così semplice da progettare. Abbiamo un patrimonio in termini di cibo, siamo custodi di millenaria cultura. Serve la capacità di creare progetti che tengano insieme la pancia e l’anima dello stivale. Da anni ormai le imprese cercano di utilizzare lo storytelling del prodotto come leva di marketing, o sponsorizzano eventi per godere dell’effetto alone che deriva dal culto del cibo. Non sempre ci riescono, perché ancora si guarda alle storie come al prodotto creativo di un copywriter invece che all’esplorazione di senso di un processo di cambiamento: delle relazioni, della terra, dell’etica, della scienza. Oggi si intravedono fra i progetti di impresa, iniziative che entrano a piene mani nella didattica del food, e nel viaggio che il cibo permette di fare su più livelli di conoscenza.Il tema della cultura non è mai stato così in voga, ma neanche così ambiguo. Ultimamente si fanno i conti su quanto valga l’economia della cultura: secondo EY in Italia l’industria creativa e culturale vale 48 miliardi (+2,4%) e cresce più del Pil. Si tratta del terzo settore in Italia per occupazione, con 880mila occupati diretti che salgono a oltre 1 milione se vi si sommano quelli indiretti. La cultura, si dice, è il petrolio dell’Italia, e accompagna quindi, intrinsecamente, il concetto di Made in Italy. Cosa si intenda per cultura è il tema più difficile da affrontare e per il quale occorre creare dei confini. Unendo le diverse definizioni potremmo includervi tutto ciò che permette di coltivare quella conoscenza utile a imparare a vivere: la letteratura sviluppa sensibilità e conoscenza, la filosofia capacità critiche.  E il cibo? Secondo il documento di Fondazione Symbola “Io sono cultura” fra le alleanze più promettenti strette negli ultimi anni c’è sicuramente quella tra cultura e mondo del cibo, con i cuochi stellati, si dice nel report, che si rifanno alle culture locali, al design e all’arte, e la cucina che si trasforma da oggetto a soggetto di comunicazione e dunque di produzione culturale. Attraverso il cibo abbiamo cambiato la nostra storia culturale e sociale, per questo è importante recuperarne la visione complessa, anche etnografica: secondo il filosofo e sociologo francese Edgar Morin viviamo in una società che tende a disgiungere prosa (cioè tutto quello che attiene alla conoscenza materiale e tecnica) e poesia (cioè quello che riguarda le emozioni e il godimento): i riti legati all’agricoltura e al piacere della tavola sono i più adatti a tenere uniti questi aspetti. Tradizione e tecnologia trovano nel cibo una tregua ai loro conflitti, e la trasversalità delle tematiche è evidente anche nel piano di studi di chi vuole fare della cultura del cibo una professione, come sottolinea Silvio Barbero vice presidente dell’Unisg, l’Università di Scienze gastronomiche di Pollenzo. “L’idea stessa dell’Università -spiega Barbero- è nata da un’urgenza di ridefinire la concezione di gastronomia come insieme di scienze e discipline complesse e collegate. Un’idea prettamente culturale del mondo del cibo e di tutte le sue numerose connessioni”. L’Unisg presta anche attenzione alla galassia della produzione e dell’economia, cercando sinergie con aziende ed enti, in modo da perseguire progetti comuni. Molte realtà imprenditoriali del mondo agroalimentare, che sostengono l’ateneo, sono alla ricerca di idee, spunti, e figure nuove per ridefinire i loro obiettivi, soprattutto profili che riescano a valorizzare i patrimoni del sapere legati all’enogastronomia. L’incrocio fra cultura e tradizione si ritrova nei progetti curati dall’Università di Slow Food. “Ci sono vari progetti -racconta Barbero- a cui abbiamo lavorato, o stiamo ancora lavorando: molti di ricerca applicata, ovvero di innovazione, altri di ricerca più di stampo accademico. I Granai della Memoria raccolgono in video interviste e testimonianze a contadini, operai, artigiani, imprenditori per creare un archivio multimediale non solo del mondo agroalimentare: memorie del passato con uno sguardo sul presente. ”Nel food design, invece, ciò che nutre diventa materia prima di progetto visivo, ma anche di riflessione sulla funzione degli oggetti e del prodotto alimentare. Architetti e designer sperimentano nuove forme e nuovi stili di convivialità, modelli del vivere insieme, e ridisegnano le esperienze di consumo. Spesso è l’occasione di incontro con la contemporaneità: stampanti 3D, crowdfunding, nuovi materiali. La cultura è più che mai legata alla creatività, materia prima tutta italiana. Costruire legami profondi con il territorio, argomentare la qualità, entrare in profonda empatia con il consumatore: la porta della cultura apre alle imprese molte opportunità, in un’ottica di slow marketing o ancora meglio di slow feeling. Secondo Paolo Zanenga, presidente di Diotima Society e autore del libro “L’economia della bellezza” non possiamo immaginare un’economia che non attraversi la cultura. “La cultura ha un ruolo crescente in tutti i settori economici -spiega Zanenga-. Le merci massificate, pensate per rispondere a bisogni standardizzati, e prodotte privilegiando efficienza e scala quantitativa, non hanno futuro, sia perché i relativi saggi di profitto scenderanno a picco, sia perché saranno sempre meno sostenibili ambientalmente e socialmente. Valore simbolico ed elevatissima personalizzazione sono i pilastri della nuova economia, e in un settore ad alto contenuto ‘rituale’ come il cibo, l’impatto di questo cambiamento è massimo. La pubblicità e il packaging hanno supplito, e ancora suppliscono, alla povertà narrativa del prodotto standard, ma la crescente consapevolezza del fruitore (non più consumatore passivo, ma contributore alla definizione del modo di alimentarsi), e la forte diversificazione delle culture del cibo (comprese anche molte sub-culture) rendono fondamentale una costruzione della value proposition lungo tutta la storia di un prodotto alimentare, e non solo nella fase di comunicazione. L’Internet delle Cose renderà ancora più radicale l’evoluzione del rapporto col cibo: ogni elemento, anche il più banale, sarà il portatore di una iperstoria specifica, così come lo saranno i comportamenti alimentari del fruitore. Capacità di interpretazione, quindi ‘cultura’ e relativa ‘educazione’, saranno sempre più fattori chiave nella strategia del sistema valoriale del cibo: non più semplice filiera dunque, ma food value system, in cui i processi produttivi, logistici, e commerciali si incroceranno sempre più con sofisticati processi di ricerca e di adozione di valori e di simboli da parte del fruitore. Un esempio significativo di declinazione di food value system è sicuramente l’evoluzione del concetto di dieta mediterranea, tema che ci vede collaborare con Kibslab”.Il prodotto diventa qualità da esplorare, come il manufatto artistico, perché dietro alla merce esiste un pensiero forte che il consumatore ha il desiderio, e quasi la pretesa, di conoscere. Il benefit per il fruitore è una maggiore competenza, e la capacità di argomentare le proprie scelte, in un momento in cui ogni scelta può essere contestata. L’esperienza di scoperta del prodotto viene declinata in ottica museale, ma con un approccio contemporaneo, che vede protagoniste le nuove tecnologie, dai beacon alla realtà aumentata. A guidare questo tipo di progetti è comunque il desiderio di passare dall’influencer all’autority, cioè a chi ha competenze ed esperienze in un campo specifico. In epoca di post verità si cerca qualche àncora per ritrovare bellezza e autenticità. La brand awarness del Made in Italy è anche questo. In ultima analisi le imprese, attraverso la cultura, vogliono offrire al proprio territorio un’identità collettiva, diventando alleate per uscire da un senso di spaesamento sempre più invadente nella vita del Paese.

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