La responsabilità sociale ha davvero conquistato il business?

Un recente articolo titolava “La responsabilità sociale conquista il business”, ma la questione è se davvero la responsabilità sociale sia divenuta parte integrante delle attività aziendali.

Il numero di Lunedì 7 Dicembre del Sole 24 Ore presentava un articolo a firma di Elio Silva dal titolo “La responsabilità sociale conquista il business”.

Il contenuto dell’articolo è certamente “tecnico” e, complessivamente, più misurato rispetto all’affermazione contenuta nel titolo. In ogni caso, da un lato, se l’obiettivo del titolo era indurre alla lettura del contenuto, va detto con chiarezza che, almeno per quanto attiene al sottoscritto, il risultato è stato pienamente raggiunto. Dall’altro, va sottolineato che l’articolo contiene i risultati di due indagini svolte, rispettivamente, presso dirigenti aziendali e comuni cittadini/consumatori, che effettivamente evidenziano dei passi in avanti nell’allontanamento sia dai comportamenti tradizionali dei manager che dalle posizioni più acquiescenti degli acquirenti finali.

In particolare, l’indagine sui manager (promossa da Prioritalia su un campione di quattrocento dirigenti del settore terziario privato “perché non possiamo pensare che siano sempre gli altri, politica ed istituzioni, ad agire) rileva che per il 92% degli intervistati “il ruolo professionale implica una precisa responsabilità nei confronti della società” e che “gli obiettivi specifici più gettonati sono … sviluppare la cultura della legalità (47%), migliorare la qualità della comunità (44%) e favorire il trasferimento di competenze (38%).

La seconda indagine, condotta dalla Nielsen, riguarda, invece, l’atteggiamento dei consumatori sulla responsabilità sociale ed evidenzia tra l’altro “che nel nostro paese i consumatori disposti a pagare un differenziale di prezzo per acquistare un brand sostenibile sono quest’anno il 52%, in crescita rispetto al 44% del 2013 ed al 45% del 2014”; commenta, perciò, l’amministratore delegato di Nielsen Italia che “non si può più parlare della sostenibilità come di un semplice differenziale di marketing”, mentre noi potremmo concludere che le tante operazioni di green washing che le imprese hanno messo in campo negli ultimi anni hanno ormai le gambe corte e potrebbero presto trasformarsi in pericolosi boomerang che danneggiano le imprese piuttosto che aiutarle a raggiungere gli obiettivi perseguiti.

Il condizionale, tuttavia, è d’obbligo. Quanto sta accadendo nel mondo dell’auto rappresenta, infatti, una sonora smentita sia delle affermazioni contenute nelle ricerche riportate da Elio Silva, sia, ancor più, del titolo scelto per attirare l’attenzione dei lettori sull’articolo in cui i quei risultati sono stati recepiti.

La prima smentita di un cambiamento reale dei comportamenti di manager e cittadini/consumatori emerge da quanto sta accadendo con il caso del così detto Dieselgate della Volkswagen. Dopo le prime defenestrazioni ed affermazioni di colpevolezza ai livelli più elevati, i comportamenti che appaiono ad osservatori esterni sembrano concentrarsi, almeno per il mercato italiano, su di una campagna promozionale in cui spicca l’assenza di ogni riferimento a quanto accaduto, se non un richiamo implicito, che peraltro sembra essere cessato dopo le prime fasi della campagna.

Questo tipo di risposta, rispettabilissima dal punto di vista degli interessi aziendali, certamente non corrisponde a quelle che potrebbero attendersi se veramente la responsabilità sociale avesse conquistato il business. Quello che ancora più contraddice il titolo dell’articolo del Sole 24 Ore è, però, il comportamento effettivo dei cittadini/consumatori italiani. Come hanno evidenziato i dati sulle immatricolazioni di auto in Italia nei mesi di Ottobre e Novembre, infatti, i cittadini/consumatori italiani sembrano non avere dato alcun peso al Dieselgate o, forse, di essere stati ampiamente convinti dalle comunicazioni promozionali proposte dal gruppo Volskwagen.

Nel mese di Novembre, infatti, le vendite dei marchi della Casa di Wolfsburg sono tutte in crescita tra il 13% ed il 27%. C’è da chiedersi, pertanto, dove sia la conquista del business da parte della responsabilità sociale anche nel pubblico e, d’altro canto, se non abbiano ragione le imprese che puntano sulla memoria corta dei cittadini/consumatori o su valori di questi assolutamente condivisibili, ma certamente qualificabili come “tradizionali” rispetto a quanto propone l’articolo.

Qualcosa di altro, però, anche se di diversa natura si può dire sempre con riferimento al mercato automobilistico. Di fronte a tante foto che ritraggono colonne di pick-up di marca Toyota con a bordo miliziani ben armati c’è da chiedersi se esiste un problema di responsabilità sociale dei manager di quest’impresa e/o degli intermediari commerciali che forniscono i mezzi a questi acquirenti. Non esiste un novello Ralph Nader che proponga iniziative del tipo di quelle assunte negli anni sessanta da questo storico fondatore del consumerismo americano?

La verità è che la responsabilità sociale è ancora ben lungi dall’avere conquistato il business e, quindi, sia i manager che le collettività. Perché ciò accada, però, è necessario non solo che si diffonda nelle collettività un’adesione non formale ai valori ed agli stili di vita che ci vengono proposti dall’Enciclica Laudato si’ e da altre fonti laiche e religiose.

E’ necessario che anche i docenti di management siano in grado di elaborare modelli di direzione e gestione delle imprese che, partendo da nuovi presupposti essenziali, come potrebbe essere quello della sostenibilità, siano non solo convincenti, ma anche convenienti in prospettiva di medio termine per tutti gli stakeholder e per la continuazione delle attività delle stesse imprese.

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