La sfida del 2017? Avere fiducia

Quattro chiacchiere a ruota libera con il fondatore di Eataly che racconta la sua visione sul prossimo anno che ci aspetta (da Mark Up n. 255)

Sembra che la fase più acuta della crisi sia passata, anche se il futuro è pieno di incognite. Cosa ne pensa?
È la fiducia la parola d’ordine del 2017: è la fiducia che muove il mondo, le imprese e le relazioni umane, mica la matematica. L’economia è figlia della fiducia:  se  c’è,  vanno  bene  i  consumi,  migliorano  le  relazioni  e  il  business,  ma  se  cade,  si  entra  in  un  clima  di  caccia  alle  streghe,  di  presunzione  di  disonestà collettiva, un Medioevo tragico che contrappongo  a  un  rinascimento  basato sulla fiducia e sull’impegno. In questo  senso,  sono  preoccupato  per  l’esito  del referendum di dicembre: se vincessero i no, rischieremmo di entrare proprio in questo clima medioevale, che significa nessun impegno da parte di nessuno. Spero fortemente che gli italiani reagiscano  e  vogliano  cambiare.  Sono  fiducioso come sempre ...

Fiducioso  anche  negli  interventi  che  politica ed istituzioni possono fare per
realizzare i cambiamenti?
La politica è uguale a noi: anzi, siamo noi. Se non è pronta la politica, non siamo pronti neanche noi. Mi fa ridere chi parla male dei politici: sono solo un nostro specchio. C’é una questione di coscienza  civica  da  affrontare  in  questo  Paese, un tema centrale per capire che non avremo politici migliori se non miglioriamo noi. Già Giolitti diceva che i politici in Italia erano per il 33% uguali agli italiani, per un altro 33% peggiori e per il restante 34% migliori: bisogna che questo ultimo terzo riesca a farcela, occorre uscire da questa narrazione del lamento, che è diventata la nostra cifra, anche in Tv. Addirittura, chi parla di soluzioni diventa antipatico, ma la verità è che non vogliamo risolvere la situazione. Però noto qualche cambiamento ...

In quale direzione?
Verso il meglio, naturalmente, nel senso che non siamo messi così male. Nel suo ultimo libro “Ripensare il capitalismo” Philip Kotler spiega che, in tutti i Paesi, bisogna ragionare in termini di reddito mediano, ovvero quello che esprime la classe media, togliendo dal conteggio gli estremi, i ricchissimi e poverissimi. Con questa metodologia Kotler dimostra che oggi gli Stati Uniti occupano l’ottavo posto nel ranking mondiale, l’Italia il quinto. Crea fiducia questo, no? Allo stesso tempo, va detto che se la politica ha il compito di creare lo scenario, sta a noi imprenditori il compito di fare gli investimenti.

Lei ne sta facendo? Quali i programmi di crescita del 2017?
Non è una domanda da fare a me, ma ai manager che stanno gestendo Eataly. Al momento siamo ancora impegnati ad aprire store in giro per il mondo: abbiamo inaugurato ad agosto il secondo Eataly a New York e a metà novembre il primo a Copenhagen, all’interno di un department  store  come  Illum  (ndr:  di  proprietà di Rinascente), e poi seguiranno Boston, Los Angeles, Mosca e altro ancora. Di certo per i prossimi due-tre anni  ci dedicheremo  ancora  all’estero, poi torneremo all’Italia e ricominceremo ad aprire.

Tra  i  negozi  che  ha  aperto  in  questi  anni, in Italia e all’estero, ce n’è uno
al quale si sente più legato?
Questo vale per tutti gli Eataly nel mondo, ovviamente! In realtà, sono sempre legato a due negozi: il primo, il Lingotto a Torino, da dove ha avuto inizio questa avventura dieci anni fa, e l’ultima apertura, quella con le novità più recenti; in questo caso, Copenhagen, ma presto ce ne saranno altre. Ma, per me, la soddisfazione principale riguarda i ragazzi che lavorano con noi -una “robetta” da 5-6  mila  dipendenti-  e  i  posti  di  lavoro, che non solo devono essere remunerati il meglio possibile, compatibilmente con le possibilità offerte dal mercato, ma  deve  anche  svolgersi  in  luoghi  caratterizzati da armonia, tranquillità e sicurezza. Eataly segue queste logiche e oggi funziona bene, soprattutto grazie a questa Italia meravigliosa in cui siamo nati,  tutto  il  mondo  la  vuole  e  ci  invidia, per la biodiversità straordinaria che abbiamo, per questa cucina incredibile che  nasce  come  cucina  domestica,  per  il fatto di poter mischiare ristorazione, didattica e mercato. Che altro ci serve?

L’eCommerce,  ad  esempio,  che  avete  appena  lanciato.  Lo  considera  un  vantaggio  anche  per  un  retailer  brick&mortar?
Certo,  anche  se  va  tenuto  conto  che  le  vendite  online  di  cibo  non  arrivano all’1%  del  mercato  mondiale.  Perchè  l’85%  di  quello  che  mangiamo  è  fresco  ed esportarlo  online  è  complesso.  Dobbiamo imparare e migliorare, invece, la narrazione digitale, molto importante perchè ci consente di creare maggiore  attrattività  per  i  nostri prodotti.  Lo storytelling ci serve per convincere il  mondo  a  pagare  un  po’  di  più  per  il  nostro olio extravergine, per le sue migliori qualità. Anche il vino va raccontato arrivando  a  raddoppiare  il  prezzo medio, a patto che sia biologico e pulito. Per fare tutto questo  bisogna associarsi e mettersi in rete. Tutte opportunità ancora da cogliere con tanto da raccontare.

Ha collaborato Barbara Trigari

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