L’arte dinamizza e comunica

Servono una visione ampia, tanta libertà d’azione e risorse adeguate: guardar lontano e veder vicino. Parola di Philippe Daverio (da Mark Up 249)

Diffondere le bellezze dell’arte, dell’architettura e del paesaggio è una delle sue grandi competenze. Il suo linguaggio chiaro e puntuale, ironico quanto basta, è riuscito a coinvolgere vaste platee su quotidiani, riviste e televisione. Recentemente, il suo libro “Arte in tavola” (per Rizzoli) è diventato un bestseller nei supermercati Esselunga. Stiamo parlando di Philippe Daverio, critico e storico d’arte, autore e conduttore televisivo del programma di successo Passepartout (dopo aver collaborato a fine anni ’90 con la trasmissione “Art’è” e aver condotto “Art.tù”), scrittore, giornalista e opinionista, curatore di mostre, consulente di grandi istituzioni museali e della casa editrice Skira. È stato assessore alla cultura di Milano e responsabile del restauro e rilancio di Palazzo Reale (giunta Formentini, dal ’93 al ‘97); è docente di Sociologia dei processi artistici nel Dipartimento di Disegno industriale all’Università degli Studi di Palermo e tiene corsi di Storia del design al Politecnico di Milano. Incontriamo Daverio nel periodo “caldo” dell’arte e del design nel capoluogo lombardo (e nell’intera città metropolitana): con la XXI Esposizione della Triennale appena inaugurata in diciannove sedi museali e della cultura, in contemporanea con il 55° Salone internazionale del mobile e con il Miart (ventunesima edizione della settimana dell’arte contemporanea) appena conclusa.

Quale dev’essere oggi la vocazione delle istituzioni artistiche per attrarre grande pubblico?
Bisogna imparare a comunicare nelle due direzioni, dentro e fuori. Mi spiego: prima di tutto occorre “attrezzarsi” nelle intenzioni per diventare comprensibili, anche a livello dialettico, attraverso una serie di domande chiare del tipo “come vedo io il mio museo? E come voglio accogliere, e chi?”. L’arte della maieutica insegna. Solo dopo si può partire con la comunicazione e il coinvolgimento del pubblico.

Se dovesse essere chiamato a fare l’Assessore alla cultura del Comune di Milano nella prossima giunta, quali progetti attiverebbe?
Porterei a termine quello che avevo cominciato venticinque anni fa. Partendo dall’ottimizzazione di Palazzo Reale, e immaginando il nuovo destino di Brera e la nascita di un grande museo di arte contemporanea che a Milano manca ancora. Poi lavorerei sul Castello Sforzesco, meraviglioso e bisognoso di valorizzazione, ricollocando intanto dov’era la Pietà Rondanini (il rispetto della memoria). Milano è una delle sei città europee cruciali per l’arte e la cultura: occorre dare più spazio all’intervento dei privati per dare respiro a ciò che già c’è. E servono, soprattutto, temi di portata collettiva per guidare le iniziative, spronando gli enti pubblici.

Sette nuovi direttori stranieri incaricati alla guida di altrettanti musei pubblici italiani (in primis, gli Uffizi). Cosa ne pensa?
L’Italia ha sempre sofferto di provincialismo. A questo si aggiunge l’annosa mancanza di formazione e di concorsi. Un direttore che si rispetti ha bisogno di spazio, di risorse adeguate e di autorevolezza. Serve una nuova élite italiana di opinione che superi la politica e la burocrazia stagnanti.012_MARKUP04_2016_Intevista_Daverio_int

Lei è nel Consiglio d’amministrazione della Fondazione Cini a Venezia e Direttore Scientifico del Museo del Duomo a Milano. Quale contributo vorrebbe portare, come membro della Consulta, nella nuova Brera?
Bisogna tornare al collegamento tra Brera e la società milanese. Va rinforzato il legame con la città, le sue istituzioni e le sue forze più propulsive e produttive. La dipendenza da Roma frena il processo dinamico e Brera soffre di questa complessità burocratica.

In passato, lei è stato un dinamico mercante d’arte tra Milano e New York. Come sta cambiando questa professione?
È morta, in Italia. Perché oggi il mercato dell’arte è dominato dalla dimensione finanziaria. Una dimensione che supera le nostre possibilità e, mancando un adeguato intervento pubblico che supplisca alle carenze evidenti, tutto si ferma.

Nuovi canali di comunicazione e social media stanno cambiando il mondo dell’informazione. Quali supporti possono dare?
Quello che si genera con questi nuovi media è una reattività immediata all’informazione. La parte cosciente degli “under 40” cerca qui ciò che non trova altrove. I supporti possono essere notevoli, a patto di saperli gestire. Per quanto mi riguarda, sto già lavorando per il web con il Corriere della Sera e con una mini-serie di video per la “La cucina italiana” di Condè Nast.

Quale linguaggio dovrà usare in futuro la comunicazione? Sia rispetto alla portata delle immagini, sia dei video sul web e dei tweet.
Manca ancora un linguaggio che sia anche visivo, o meglio: va inventato considerando che il desktop del computer non è la tv, e non è neppure lo schermo cinematografico. L’evoluzione veloce della tecnologia non ha avuto riscontro nella capacità di adeguare i mezzi della comunicazione, sia come tecnica sia come espressione linguistica e visuale. Sono, però, convinto che presto succederà.

L’arte può essere un motore per la comunicazione? Arte e comunicazione insieme funzionano? Pensiamo alla street art o a forme di comunicazione come quelle usate con il suo libro da Esselunga ...
Stanno nascendo nuove forme di arte nella comunicazione. Una volta, nei media, l’illustrazione era un mezzo espressivo immenso. Oggi la street art può certo liberare forme estetiche e il design stesso attrae grandi energie dall’arte e, come questa, apre la mente e genera un dialogo con la società. L’esempio che citate, quello con Esselunga che ho inventato a quattro mani con l’amico Bernardo Caprotti, ha avuto un enorme successo grazie alla diffusione delle immagini sui display delle metropolitane. Milioni di persone sono entrati così in contatto con il libro “Arte in tavola”, per puro caso. Poi l’hanno ritrovato sugli scaffali del supermercato. Ne sono state vendute a oggi diecimila copie.

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La comunicazione sarà ancora di massa oppure personalizzata, andando a colpire target o segmenti di popolazione?
La personalizzazione sul target è già praticata all’estero, ma in Italia siamo ancora agli inizi. Per certi prodotti è evidentemente utile che anche la comunicazione sia disegnata sulla clientela: metodi, linguaggi, persino gli orari della diffusione.

Passando ai suoi libri con Rizzoli, sette in cinque anni, ci racconti il processo d’innovazione scelto nella comunicazione dei contenuti, in parallelo a quanto lei ha fatto nei suoi programmi tv ...
La carta stampata è uno strumento così atavico, sedimentato, che se gli dai vita risponde immediatamente. Come sappiamo, in Italia, chi consuma cultura scritta è però un bacino ristretto al 5% della popolazione, tre milioni di persone. Il 30% di ciò che si pubblica si vende nell’area metropolitana che abbraccia Milano e il territorio che la circonda con un raggio di cinquanta chilometri. C’è, inoltre, un elemento curioso da considerare nella lettura del Paese se si vuole migliorare la comunicazione: c’è un’Italia che va da Venezia a Bari, longitudinalmente, e un’altra che va da Genova a Palermo. Due amalgama diversi, in qualche modo, due sistemi e ritmi, forse due visioni del mondo. Meriterebbe una riflessione.

A proposito del suo libro ‘Il gioco della pittura’: la pittura, come la musica, non richiede traduzioni. La musica esige di essere suonata quindi interpretata. “La pittura è”. Un diktat applicabile anche alla comunicazione? E questa può non essere interpretata, ma lasciata a una lettura personale? 
No, la comunicazione viaggia su un altro binario: è univoca, mentre l’arte è equivoca, direi. È la stessa differenza che passa tra una canzone in tv (che si “consuma” da soli) e una sentita dal vivo a Sanremo. Pittura e comunicazione certo si contaminano, ma sono mondi diversi.

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