Lezioni per aziende dal Diversity Brand Summit, che premia Coca-Cola

Il premio Brand Diversity Award è stato assegnato alla company nell’ambito dell'evento ideato da Francesca Vecchioni, che è stato anche occasione per fare un punto scientifico e pratico sul tema
Foto di Silvia Mansutti. Da destra: Debora Villa; Sandro Castaldo, docente di marketing presso l’Università Commerciale Luigi Bocconi; Cristina Broch, Direttore Relazioni Istituzionali e Comunicazione Coca-Cola Italia; Monica Bastiani, Direttore HR Central Europe e Italy Coca-Cola; Francesca Vecchioni, Presidente di Diversity

È stata Coca-Cola ad aggiudicarsi il Brand Diversity Award per l'impegno nel favorire diversity & inclusion e per la capacità in comunicazione di parlare ad ogni persona (a partire dallo spot Pool Boy andato in onda nel 2017). Il premio è stato assegnato nell’ambito del Diversity Brand Summit, evento ideato da Francesca Vecchioni, presidente di Diversity, associazione no profit impegnata nella promozione di politiche di diversity, e da Sandro Castaldo, docente di marketing presso l’Università Commerciale Luigi Bocconi.

Oltre alla premiazione, nel corso della prima edizione del Diversity Brand Summit sono intervenuti numerosi esperti sul tema e diverse aziende che hanno portato esempi virtuosi con annesse buone pratiche. Il punto centrale è ancora una volta che la diversity interna ed esterna fa bene al business, rendendolo più innovativo, rispondente ai cambiamenti di mercato e in grado di risolvere rapidamente i problemi (dati scientifici alla mano). Come da logica umana e matematica: la varietà apporta valore aggiunto, un valore che trova riscontro anche in termini estremamente concreti e monetari.

Tra le soluzioni più semplici ed immediate per favorire una cultura di diversity in azienda? "Tanto per cominciare, dobbiamo smetterla (come uomini al vertice ndr) di favorire persone uguali a noi" sottolinea Yves Desjardins-Siciliano, presidente e amministratore delegato di VIA Rail Canada, intervistato dalla direttrice di Mark Up Cristina Lazzati.

Come ribadisce Francesca Vecchioni, parlare di diversity a trecentosessanta gradi significa parlare non solo a chi è coinvolto direttamente (che comunque non è una nicchia), ma a una sensibilità che ormai è sempre più collettiva e socialmente condivisa (ancora un volta: numeri alla mano). Significa, insomma, saper parlare a un ampio target con rilevanza.

"Come grande azienda facciamo business e prodotti per tutti e quindi la diversity fa parte della nostra cultura aziendale. Siamo stati ad esempio tra i primi a mettere il braille sulle nostre confezioni, abbiamo pensato a una linea di prodotti per capelli rivolta agli afroamericani. Certo, non si può negare che la strada da fare in tal senso sia ancora tanta, anche all'interno delle aziende", evidenzia Bernadette Bevacqua, donna, siciliana, presidente e Ad di Henkel Italia, nel corso di una tavola rotonda moderata da Cristina Lazzati.

"La diversity è un tema serio, ma se vogliamo parlarne in modo efficace non va trattato troppo seriamente e con tono eccessivamente politically correct", spiega Arwa Mahdawi, ex-avvocata ed ex-advertising executive diventata giornalista e brand/communications strategist. Con programmi di diversity poco ragionati il rischio all'interno delle aziende è quello di creare l'effetto opposto e forme di resistenza. Se invece la diversità è introdotta correttamente nei team questi raggiungono performance considerevolmente elevate (nella slide a lato qualche dato).

Una buona pratica in tal senso? Quella introdotta da Mauro Meanti, responsabile per l’Italia di Avanade (joint venture tra Microsoft e Accenture) e vicepresidente di ValoreD. "Ho deciso di ribaltare il paradigma della cura concentrando tutte le iniziative legate al genere sui maschi. Da noi gli uomini sono obbligati a prendersi 15 giorni di paternità. Questo serve a ribaltare almeno per breve tempo il punto di vista e insegna a gestire l'interruzione progettuale a prescindere dal genere", racconta Meanti. Un modo per slegare la donna da quell'immagine problematica di maternità che crea gap gestionali, trasformando l'accudimento dei figli in pratica condivisa e la necessità di saper gestire interruzioni in questione di business e non di maschile e femminile.

La domanda adesso è: e voi, cosa state facendo?

Nota: quelli riportati sono solo alcuni dei numerosi spunti emersi dal Diversity Brand Summit, potete ritrovare tutti gli interventi sotto l'hashtag #DBS2018

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