L’internazionalizzazione richiede sviluppo interculturale

Cristina Lazzati, direttore responsabile di Mark Up e Gdoweek
Cristina Lazzati, direttore responsabile di Mark Up e Gdoweek

Internazionalizzazione: su questo puntano moltissime aziende italiane. Gli strumenti oggi sono più numerosi rispetto al passato e sono abbordabili anche per aziende con taglie più piccole e con meno capitali da investire. Ci si confronta (lo abbiamo fatto anche noi su Mark Up di aprile) sulle opzioni a disposizione: dalla classica apertura di uffici internazionali nel mondo, all’eCommerce, passando per fiere e Ice, affidandosi ai distributori italiani che si sono organizzati in vere e proprie aziende di export. Ancora in pochi, a questi investimenti in internazionalizzazione, accostano il necessario sviluppo interculturale, alla maggioranza sembra bastare il fatto che all’estero il made in Italy piace; che il lifestyle italiano non ha mai fatto tendenza come in questo momento e che trasparenza e genuinità, uniti all’espletamento di una serie di procedure più o meno certificatorie e/o burocratiche, permettano di esportare i prodotti fuori dall’Italia. Il contenitore “estero”, però, ha dentro di sè nomi, facce, abitudini, usanze, credo religiosi, climi molto diversi tra di loro: non esiste un estero, esistono Paesi ed esistono clienti. Quanto chi va all’estero è preparato per intepretare il linguaggio verbale e non verbale del proprio cliente? Quanto si è pronti per affrontare una negoziazione con un buyer, con un importatore, sapendo leggere i non detti? Inoltre, i più accorti investono in ricerche su “cosa” consuma il cliente finale di quel determinato paese, pochissimi sanno “come” lo consuma. La multiculturalità che entra nelle aziende tramite l’internazionalizzazione è un di cui, spesso trascurato, per non parlare dell’interculturalità: se si confronta la domanda di formazione interculturale delle aziende italiane rispetto a quelle europee e americane, si osserva che essa è decisamente meno importante e sviluppata; così spiega Frederique Sylvestre, consulente aziendale, che da anni si occupa di formazione interculturale: “Nella nostra esperienza alcune affermazioni sono ricorrenti: ‘Ce la caveremo comunque ...’, ‘Le differenze con la Cina, si ma in Europa ...’, ‘Ci si intende tra stesse professionalità’,  ‘Abbiamo gli stessi obiettivi ...’, ‘Siamo della stessa azienda ...’. In alcuni casi, possiamo affermare che le aziende si comportano come se le difficoltà incontrate dalle persone nella relazione interculturale non fossero riconosciute”. Per fortuna qualcosa si muove, per quanto, al momento, siano soprattutto i settori tecnologico e bancario che si stanno più impegnando in questa direzione e per quanto il food sia di per sè un fantastico apripista nelle relazioni umane, anche alle aziende italiane dell’agroalimentare un po’ di interculturalità non farebbe male come sottolinea Sylvestre: “Per sviluppare una relazione di fiducia con l’altro occorre lavorare sul superamento di pregiudizi e stereotipi, riconoscendo la relatività della propria cultura e la positività delle differenze, acquisendo nuovi codici interpretativi e sviluppando, infine, atteggiamenti di apertura nei confronti di persone di altre culture. In questo modo si crea quel valore aggiunto tanto auspicato”.

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