Mangiare fuori (in casa di qualcun altro)

Cosa c’è dietro la moda dell’home restaurant? La ricerca di una nuova socialità fondata su bisogni e valori condivisi, per rafforzare se stessi (la propria identità) in virtù di una appartenenza, ma anche per risparmiare usufruendo di servizi di qualità a basso prezzo (da Mark Up n. 258)

La crisi economica di metà anni Duemila ha favorito la crescita di nuove forme di economia, più centrate sulla persona, sulla condivisione, sull’utilizzo sostenibile delle risorse, dando avvio ai primi esempi di sharing economy. Una ricerca di modelli di sviluppo alternativi -il che implica condivisione di valori, quindi in certa misura anche appartenenza, socializzazione- oltre che per la necessità crescente dei singoli di risparmiare/guadagnare qualcosa. Non solo: c’è poi da considerare l’impulso dato a questo tipo di attività dalla tecnologia informatica, che ha consentito la creazione di piattaforme in grado di facilitare l’incontro tra domanda e offerta e di offrire tutta una serie di garanzie/tutele/servizi ai propri utenti. Ecco quindi che, nonostante il perdurare di una certa diffidenza -gli adulti, al contrario dei giovani, faticano a “mescolarsi” con altri adulti estranei- sono esplosi fenomeni tipo Airbnb (ospitalità domestica), Blablacar (passaggi in auto a pagamento) e Gnammo (home restaurant).  Una sorta di economia hipster a basso investimento/basso guadagno, fuori dagli schemi classici di carriera/stipendio e caratterizzata da un livello tecnologico, creativo e immaginativo più elevato. Un valore basato sull’esperienza. Per quanto riguarda il fenomeno dell’home restaurant, ovvero la possibilità di ospitare in casa propria gruppi di utenti più o meno numerosi ed eterogenei ai quali servire un pasto home made più o meno strutturato da gustare in compagnia, si aggiungono altri fattori propulsivi. Basti pensare al fatto che da anni tutti i media vecchi e nuovi parlano di cucina, mostrano ricette, illustrano ingredienti e hanno fatto degli chef una categoria aspirazionale, ma anche all’enfasi che eventi tipo l’Expo hanno dato al mondo del cibo. Tutti segnali che hanno fatto sì che, sebbene nella media si abbia sempre meno tempo e meno abilità da dedicare in cucina, il livello di attenzionalità nel confronti del cibo in generale e alle varie forme di ristorazione in particolare, dallo street food all’alta cucina, sia in continua crescita. Di qui la voglia di provare nuove esperienze, di misurarsi con altre abilità, di socializzare con persone con cui si condividono gli stessi tipi di interessi. “Con la crisi si pensava che i consumi sarebbero diventati via via più basici – commenta Caterina Schiavon, sociosemiologa (marketing, comunicazione e scenari in Kkienn - Connecting Customers And Companies- Torino)- invece è successo il contrario: l’attenzione è sempre meno limitata al prodotto in sé, la gente vuole acquistare esperienze, polisensorialità, emozioni, conoscenze. L’interesse si sposta sul portato valoriale che c’è intorno alle cose. Questo vale per il retail, ma anche per i consumi fuoricasa, dove le proposte sono talmente tante per qualità e prezzo che una volta fatta una prima selezione (sempre più spesso tramite siti online quali Tripadvisor o The fork) il discrimine alla fine sta appunto nel livello di esperienzialità offerta. Non a caso i nuovi posti del cibo sono sempre più caratterizzati per spunti tematici, non solo per quanto riguarda il menù (vegetariano, etnico, tipico), ma anche per l’ambientazione, dall’arredamento agli accessori sino a volte ai minimi dettagli quali packaging o cartellonistica, in modo di comunicare un pensiero totale relativo alla scelta operata dal cliente che così si porta a casa un’esperienza a 360 gradi”.  Insomma, il cliente va coccolato, e cosa c’è di meglio di invitarlo a casa propria per condividere il proprio desco? A dare valore è il cibo di casa. Perché è sì piacere sensoriale, ma anche convivialità, socializzazione. E dato che la rete è il nuovo luogo della socializzazione, i portali di social eating spesso diventano veri e propri social network attraverso i quali gli utenti si conoscono per poi incontrarsi nel mondo reale. “Il bello di tutto ciò -spiega Schiavon- è che si riesce a conciliare il bello dell’online (comodità, leggerezza, facilità) con la possibilità di avere un rapporto esperienziale concreto e assolutamente sui generis. Che non solo permette di godere di un’accoglienza e di un’atmosfera familiare, più intima e meno impersonale di quella del ristorante, ma spesso anche di instaurare un rapporto amicale con chi ci ospita e con gli altri commensali, che avendo selezionato lo stesso tipo di offerta presumibilmente sono di livello socioculturale consono all’ambiente e quindi non è difficile trovare argomenti di conversazione comuni”.

L'intero articolo su Mark Up n. 258

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