Matrimonio tra Università e Impresa per lo sviluppo della conoscenza

Sviluppare partnership con le imprese che portino alla integrazione anche fisica delle attività di ricerca è un fattore di successo e di attrattività sempre più importante per le università.

Qualche mese fa in un’editoriale di Nature, insieme a Science la rivista più prestigiosa in ambito scientifico, è stato trattato un tema centrale nel dibattito su come aumentare la rilevanza della ricerca svolta dalle Università, relativo alla utilità di una più stretta collaborazione con il mondo delle imprese.

L’interazione reciproca tra formazione, ricerca e impresa accresce lo sviluppo delle competenze e l’impatto delle Università, attraverso stimoli e scambi sistematici di cui possono avvalersi i ricercatori, le imprese, ma anche gli stessi studenti che ricevono così una preparazione alle sfide dell’innovazione continua. Perseguire una partnership con un’impresa va ovviamente molto oltre la semplice ricerca di finanziamenti complementari a quelli pubblici, si tratta di condividere le risorse al fine di migliorare i risultati dei diversi contributori (le pubblicazioni e i brevetti per i ricercatori, la capacità innovativa e la competitività per l’impresa, le competenze e le opportunità occupazionali per gli studenti) e l’attrattività per l’istituzione universitaria.

L’articolo sottolinea come il successo delle partnership tra impresa e accademia sia legato a tre fattori: interessi comuni, fiducia e buona comunicazione. Tutti questi fattori possono essere aiutati quando vi è una integrazione anche fisica (colocation) dell’attività di ricerca.

E’ questa una recente frontiera che integra i più tradizionali parchi scientifici universitari o lo sviluppo di spin-off.

I riferimenti riportati sono tutti statunitensi, ma anche in Italia vi sono interessanti esperienze al proposito, partendo da ciò che si è sviluppato in diversi incubatori come quelli del Politecnico di Milano (Polihub) o della Bocconi (Speedup), il Parco Tecnologico Padano per le biotecnologie alimentari, il recente Luiss Enlabs nel cuore della Stazione di Termini a Roma, ma altri ne troviamo lungo tutta l’Italia. A Napoli, ad esempio, un’iniziativa risalente a oltre trent’anni fa è quella della CEINGE un centro di eccellenza attivato dalla Federico per sviluppare ricerche ed operare come incubatore di imprese nel campo delle Biotecnologie Avanzate che raccoglie più di 250 ricercatori e ha incubato imprese di grande successo. A Catania vi è poi il Distretto Tecnologico sviluppato dall’Università insieme a STM.

Facendo riferimento alla mia istituzione di riferimento, la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, vorrei infine citare due esempi interessanti di colocation: il primo riguarda l’Istituto Tecip che da oltre dieci anni ha una struttura di ricerca condivisa con Ericcson in cui operano insieme più di 200 ricercatori sui temi delle telecomunicazioni e della fotonica; il secondo, più recente, riguarda un joint laboratory sviluppato sui temi della salute e del benessere con Telecom Italia, che presenta caratteristiche di elevata interdisciplinarietà. In questo laboratorio congiunto sono infatti fortemente coinvolti, insieme agli ingegneri, anche docenti e phd students di management che contribuiscono a individuare e definire le nuove soluzioni da sviluppare in un’ottica di open innovation decisamente orientata al rapporto con i mercati.

Naturalmente esistono anche alcuni elementi di delicatezza che devono essere gestiti al meglio: l’equilibrio tra l’orientamento a proteggere i risultati dell’innovazione tipico dell’impresa e quella a divulgarla dell’Università, l’attenzione ai conflitti di interesse che possono insorgere nelle relazioni tra i diversi attori, l’uso corretto delle risorse pubbliche, ecc. Ma in un contesto in cui l’open innovation sta sempre più diventando una modalità chiave dello sviluppo della ricerca e della conoscenza molte di queste potenziali criticità si risolvono più agevolmente.

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