Olio, dobbiamo (in)seguire il modello Spagna?

La parola ai player del settore su come uscire dalle criticità per cogliere le opportunità e rilanciare un settore chiave del made in Italy (da Mark Up n. 278)

Nel 2018 il crollo della produzione nazionale è stato tra i più forti: meno 57% rispetto all’anno precedente, circa 185mila tonnellate secondo i dati Ismea. In Spagna nello stesso periodo la produzione ha registrato un +24%, raggiungendo 1,6 milioni di tonnellate. E questo capita dopo l’accordo sull’extravergine di oliva 100% italiano siglato tra Federolio, Unaprol e Coldiretti che auspicava, attraverso i contratti di filiera, una crescita della produzione nazionale fino a diventare sufficiente per il fabbisogno nazionale. Il prodotto Made in Italy commercializzato in Italia ha, del resto, solo l’8% di quota di mercato anche se la sua presenza in gdo come extravergine è raddoppiata in dieci anni arrivando al 26,6%. Nel 2018 gli arrivi di olio dalla Tunisia sono raddoppiati.

L’olio sta vivendo l’ennesima fase di difficoltà. Coldiretti e Unaprol hanno presentato al ministro delle Politiche agricole alimentari e forestali, Gian Marco Centinaio, una piattaforma Salvaolio. Tra le richieste un Piano olivicolo nazionale 2.0, con maglie ancora più strette sui reati alimentari, risorse per il Fondo di solidarietà nazionale, interventi per l’emergenza Xylella (estesa su 700mila ettari, con danni da 1,2 miliardi), l’obbligo della registrazione telematica degli oli commercializzati, trasparenza sulle etichette e maggiori controlli sulle importazioni.

Rimangono però ostacoli strutturali. A cominciare dalla mancanza di aggregazione: 800mila aziende olivicole di cui solo il 37% sarebbe in grado di sostenere la competitività del mercato, secondo un’analisi di Ismea; una media appena sopra l’ettaro per azienda agricola, 4-5 volte inferiore alla Spagna; circa 4.500 frantoi (rispetto ai 1.600 degli iberici). Di qui i freni agli investimenti in olivicoltura (la Spagna tra il ‘95 e il 2002 ha piantato più di 50 milioni di alberi rispetto ai soli 2,5 milioni dell’Italia) e alla scelta della produzione intensiva e meccanizzata. Fattori che concorrono, con altri (costo del lavoro e dell’energia elettrica, modesto utilizzo dei sottoprodotti per realizzare extraprofitti), a determinare il più alto costo di produzione tra i Paesi europei produttori (3,95 euro/kg), secondo una ricerca del Consiglio oleicolo internazionale presentata all’ultima edizione di Olio Officina Festival.

Modello Spagna. Da più parti lo si invoca come chiave del rilancio produttivo. Passare al superintensivo equivale ad arrivare a 1.600 piante per ettaro rispetto alle 170 piante per ettaro del sistema tradizionale. Per Giovanni Zucchi, vicepresidente di Oleificio Zucchi, azienda a gestione familiare con sede e stabilimento a Cremona, oltre duecento anni di storia, e 200 milioni di fatturato, la scelta radicale non è quella più giusta, meglio una terza via. “Pensare di fare il salto della Spagna oggi è velleitario con vent’anni di ritardo. Oggi il 10% degli uliveti spagnoli sono superintensivi; un altro 20-30% è intensivo e il resto tradizionale. Ma là il 70% è gestito da cooperative, con efficacia sui costi anche per il sistema tradizionale. In Italia la cooperazione gestisce unicamente il 5% della produzione, in più abbiamo una frammentazione di frantoi rispetto alla Spagna e in competizione. A mio giudizio l’obiettivo è un modello misto. E ha bisogno di cultivar italiane. Passare solo al superintensivo sarebbe uno stravolgimento della biodiversità. L’Italia non può pensare di fare olio di 2-3 gusti. Mantenere una parte di tradizionale servirebbe come polmone alla biodiversità. Oggi l’olivo fa grande azione di greening contro la CO2. Ovvio che ci vogliano macchine diverse e una spinta all’aggregazione”.

Sulla necessità dell’aggregazione e degli investimenti in nuovi impianti insiste anche Monini. Azienda fondata nel 1920, oggi alla terza generazione, completamente italiana, con un fatturato intorno ai 150 milioni, export al 35%. “Il discorso atavico è la frammentazione -spiega Michele Labarile, direzione controllo qualità

materie prime-. Serve fare cooperazione, cogliere opportunità comuni tra le aziende, sviluppare un dialogo anche interprofessionale. Grazie agli investimenti la Spagna negli ultimi decenni ha triplicato la produzione e l’ha anche migliorata, corredata da Dop e Igp”.

“La Spagna sfrutta al massimo gli ettari -concorda Chiara Coricelli, Ad di Coricelli, azienda olearia nata a Spoleto nel 1939 e tra le più grandi d’Europa-, il nostro territorio non è stato valorizzato con l’ammodernamento delle tecniche produttive. Abbiamo uliveti centenari e anche millenari in Puglia ma il livello di produttività e qualità risente dell’età. Il lavoro di valorizzazione deve unire tutto il comparto industriale oleario: non possiamo pensare di farlo partire dalle Dop che non possono essere il driver”.

Sul tema di una svolta per una produzione che abbia maggiore efficienza insiste anche Carapelli Firenze, azienda italiana che vanta oltre 120 anni di esperienza nell’arte olearia, oggi parte del gruppo spagnolo Deoleo, che con i suoi diversi brand, è al primo posto nel settore olio di oliva in Italia e in Spagna, con un valore netto delle vendite di 692 milioni di euro. “La ricchezza del settore olivicolo italiano rappresenta anche una debolezza strutturale della filiera produttiva -nota Igor Boccardo head of business unit Italy di Carapelli-: aziende agricole di piccole dimensioni, limitata meccanizzazione e irrigazione, elevata numerosità di piccoli frantoi inevitabilmente inefficienti, il tutto con elevati costi di manodopera che costituiscono la voce più importante della struttura dei costi produttivi. Aspetti chiave su cui la Spagna è intervenuta da decenni, con una politica di investimenti che hanno valorizzato la già favorevole conformazione territoriale”.

“Sono d’accordo sulla necessità di una meccanizzazione nella stragrande maggioranza delle regioni anche se in Puglia, che è leader, c’è una cultura più intensiva -commenta Marco Dal Sasso, direttore generale di Benvolio, azienda nata nel 1938 per la produzione di oli di semi e oggi sempre più segmentata, con 30 milioni di fatturato come Gruppo, export al 30-40%, stabilimento principale a Inveruno-. I freni sono culturali, non vedo motivazioni per non farlo e farebbe bene a tutto il settore. Oggi c’è richiesta sempre più di olio italiano. La Spagna fa 5 volte quello che facciamo noi. Mettiamoci noi a essere competitivi cominciando a essere intensivi”.

Mosca olearia, Xylella, siccità: l’agricoltura 4.0 potrebbe aiutare ad avere un ruolo più attivo e a non subire eventi atmosferici e patogeni. Peccato che meno dell’1 per cento della superficie coltivata nel nostro Paese sia però gestita con le circa 300 attuali soluzioni tecnologiche digitali, come racconta uno studio dell’Osservatorio Smart AgriFood della School of Management del Politecnico di Milano e del Laboratorio Rise dell’Università degli Studi di Brescia. “L’agricoltura 4.0 è vitale al modello intensivo e superintensivo, ma serve a poco senza la gestione del dato. Oggi comunque la gestione agronomica non è 4.0 -ammette Giovanni Zucchi-. C’è un tema di mosca olearia, ma anche di sistemi di irrigazione. Con il lavoro che Zucchi ha fatto, con il solo monitoraggio del dato raccolto in modo manuale, abbiamo avuto un 30% di miglioramento degli aspetti di sostenibilità”.

“L’agricoltura di precisione ormai è realtà in molti settori: dovrà diventarla anche nel settore oleicolo”, afferma Igor Boccardo. Per competere con le produzioni comunitarie, “Prima di arrivare al 4.0 già il 2.0 sarebbe un passo in avanti -concorda Chiara Coricelli-. Per esempio con gli impianti a goccia che sono un rimedio alla siccità e che oggi sono pochissimi”. Il freno è la frammentazione. “Investire diventa più difficile -afferma Dal Sasso-. Le associazioni dovrebbero dare una mano per favorire le aggregazioni”.

Ci sono associazioni come Coldiretti che spingono sul made in Italy come chiave per risollevare il settore. Ma i numeri non tornano. “La materia prima italiana è limitatissima. Quest’anno è stata un’altra annata terribile: produciamo meno di un quinto del fabbisogno per il consumo interno -fa sapere Michele Labarile-. L’olio italiano non è sufficiente e il ricorso ad oli di qualità dell’Unione Europea non è un capriccio ma una necessità. E così nella nostra gamma di prodotti assieme a oli 100% italiani e ben 4 Dop e Igp vi sono oli della Unione Europea”. Concorda con questa visione anche Chiara Coricelli. “Noi abbiamo puntato a diversificare molto la categoria dell’extravergine, non solo comunitario, ma 100% italiano”. Montalbano Agricola spa, 85 milioni di fatturato, quota export al 15-20%, sede e impianto produttivo a Vinci, ha puntato sulla valorizzazione del prodotto italiano, con il progetto Terre Nostre. “Non facciamo marcia indietro -afferma Viviana Benvenuti responsabile marketing e comunicazione per Montalbano-. La quantità di olio prodotta è stata tra le più basse degli ultimi anni e anche la qualità ne ha risentito. Bisogna investire sul campo, sui produttori, affinché possano produrre di più a costi minori”. “Noi imbottigliamo per la stragrande maggioranza olio italiano -fa sapere Dal Sasso-, con differenze di prezzo per annata che arrivano al 40%. È molto difficile lavorarci, ma noi ci crediamo. Quello che non è corretto è vedere che certi brand evocano regioni o italianità ma poi utilizzano oli comunitari”.

La legislazione è molto restrittiva su quanto si può dichiarare in etichetta, dove si possono usare solo termini tecnici che il consumatore non può capire e si trova davanti a uno scaffale muto. In effetti l’Ue ci ha messo del suo. Non si può raccontare il profilo di gusto in etichetta a causa del regolamento Cee del ’91, nato per il timore di aggiunta di flavour artificiali che in quegli anni non erano verificabili. E anche giocare sul fattore appeal nutraceutico è complicato visto che per utilizzare il claim nutrizionale i parametri di qualità, tra cui acidità, polifenoli, perossidi, devono mantenersi fino a scadenza del prodotto in base a una modifica della normativa Ue.

Ulteriore discrepanza: l’olio che piace ai consumatori è con basso contenuto di polifenoli, che danno amarezza. Il piccante e l’amaro, che sono indice di qualità, non sono graditi per un discorso di utilizzo in cucina. Mentre si percepisce subito che i grassi sono calorici con conseguente demonizzazione pur su una base di scarsa conoscenza.

Come giocare la carta dei monocultivar e della segmentazione prodotto? Di fronte a tanti paletti, al momento l’unica strategia sembra quella della segmentazione. “Le cultivar potrebbero essere una delle chiavi per far crescere la cultura tra i consumatori e far fare un salto nel sapere diffuso -ipotizza Michele Labarile-. È quello che da anni Monini sta facendo con i monocultivar, intervenendo con produttori in zone di produzione eletta dove noi diamo know how, regole, sosteniamo finanziariamente per avere un prodotto di eccellenza. La commercializzazione dei monocultivar è partita solo da pochi anni”.

“L’industria non può far altro che puntare sulla comunicazione e diversificazione dell’offerta al consumatore per costruire un minimo di cultura del prodotto”, ritiene Chiara Coricelli. L’obiettivo è segmentare per intercettare i diversi bisogni del consumatore e invitarli alla prova di più tipi di oli.

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