On the road: pianificazione a tutto campo per il commercio

Urbanistica, Real Estate & Cci 2009 – L’urbanistica commerciale dovrà partire dall’individuazione di concreti sistemi commerciali. (Da Urbanistica, Real Estate & Cci 2009)

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Il commercio si distribuisce naturalmente per assi, punti o poli, e non per aree territoriali estese

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La regolamentazione urbanistica deve riguardare non solo il commercio al dettaglio, ma tutte le attività che impattano sul territorio

Quando si parla di pianificazione commerciale la mente corre subito, almeno in Italia, alle grandi aree, commerciali e di servizio: supermercati/ipermercati, shopping center, stazioni ferroviarie e aeroporti. Le strutture di vendita medio-grandi, soprattutto se inserite in sviluppi o ambiti immobiliari complessi, rappresentano ancora un motivo di attualità, ma è anche vero che in questo settore, almeno al nord, gran parte dei giochi è fatta: si avvicina il momento di intervenire sul recupero delle aree commerciali dismesse, e quindi è necessario occuparsi anche, e con la massima attenzione, dei servizi di prossimità.

Purtroppo è d'uso per moltissimi architetti considerare il commercio di vicinato come un problema residuale, di cui non vale la pena occuparsi, trattandolo come una destinazione complementare, compatibile con tutte le aree residenziali e miste, tanto “male non può fare”. Niente di più sbagliato. Certo il piccolo commercio non può fare danno, ma la confusione urbanistica può fare malissimo al commercio, rendendolo esposto senza difese alla ben più agguerrita concorrenza della grande distribuzione.
Le funzioni commerciali di diverso livello dovrebbero essere pianificate a diversi livelli territoriali: cosa che avviene difficilmente. Tutte le leggi regionali prevedono che le destinazioni di grandi e medie strutture di vendita debbano essere previste negli strumenti urbanistici, e di conseguenza ciò avviene a livello comunale. A volte le regioni hanno fissato limiti quantitativi (numero o superfici), cosa ormai non più compatibile con i criteri di legge sulla tutela della concorrenza. In generale hanno fissato regole sul dove o come non localizzare le grandi strutture o su come autorizzare le attività (su richiesta), ma non abbiamo notizia (salvo qualche pregevole eccezione a livello provinciale) di localizzazioni di grandi strutture pianificate in base a scelte pubbliche di livello sovraccomunale.

In generale i comuni cercano di prevedere spazi per la grande distribuzione per conseguire un vantaggio competitivo sui vicini, senza preoccuparsi troppo dell'ottimizzazione delle location. La regione Lombardia, per esempio, ha previsto che i comuni che prevedono sul territorio strutture di livello sovraccomunale, devono preparare studi preliminari: solo un comune su cinque realizza tali studi. Gli operatori, invece, puntano a scegliere la localizzazione in base ai comuni che offrono minore resistenza. Le regioni stanno in mezzo e cercano di minimizzare i danni. Non è un gran bel gioco ma funziona così. L'urbanistica vera sarebbe un'altra cosa!
Con questi chiari di luna, non deve meravigliare che l'avanzamento scientifico dell'urbanistica commerciale, quantomeno in Italia, non abbia avuto la necessaria evoluzione, rimanendo in generale ancorata alla tradizionale metodologia dello “zoning”, che i più avanzati studiosi della materia (ma in Italia l'architetto Gentili lo diceva già negli anni '70) ritengono inadeguata a interpretare i fenomeni commerciali.

Inadeguatezza dello zoning

Vi sono due punti fondamentali in cui le logiche di sviluppo del commercio entrano in conflitto con quelle dello zoning.

Innanzitutto il commercio si distribuisce naturalmente per assi, punti o poli, e non per aree territoriali estese, e quindi non si presta a essere regolamentato con meccanismi che fissano disposizioni uniformi per zone omogenee estese.

In secondo luogo lo zoning tende a raggruppare territorialmente funzioni omogenee, mentre il commercio tende a prosperare in situazioni di mescolanza di funzioni diverse, al punto tale che anche i centri commerciali, che sembravano nati per realizzare delle concentrazioni commerciali omogenee, si stanno sempre più trasformando in strutture polifunzionali integrate.
L'approccio alternativo che proponiamo per gli strumenti urbanistici consiste nel partire dall'analisi della realtà commerciale locale per individuarne le caratteristiche distributive in rapporto al territorio e in particolare verificare l'esistenza e le caratteristiche di veri e propri “sistemi commerciali”, che innervino la struttura distributiva presente sul territorio, in alternativa a una distribuzione pressoché casuale rispetto all'edilizia presente sul territorio.

Sistemi commerciali e attuali limiti

Con il termine “sistemi commerciali” ci riferiamo a raggruppamenti di attività commerciali in insiemi programmati o spontanei di consistenza sufficiente a determinare effetti di sinergia e richiamo.

In generale, la distribuzione delle attività commerciali in sistemi può assumere le seguenti articolazioni:

a) Sistemi commerciali lineari:

• vie centrali;

• assi di attraversamento;

• assi di grande comunicazione.

b) Sistemi commerciali areali:
• programmati (per grandi strutture di vendita; per medie strutture di vendita significative; di concentrazione funzionale, aree mercatali);

• consolidati o spontanei (addensamenti commerciali superiori a una dimensione prefissata entro un breve raggio a percorrenza pedonale).

In base a questa logica il piano si porrà l'obiettivo di razionalizzare la crescita del comparto valorizzando e incentivando il più possibile la collocazione delle attività all'interno dei sistemi commerciali. La strategia è quindi di stabilire l'insediabilità o meno delle varie tipologie di attività a seconda del sistema commerciale di collocazione, anziché genericamente della zona urbanistica.

La collocazione di attività commerciali al di fuori dei sistemi commerciali esistenti o di quelli programmati dovrebbe essere tendenzialmente un'eccezione, riservata ad attività particolari, quali la vendita dei generi strumentali o ingombranti, la vendita diretta da parte dei produttori (anche industriali), l'ingrosso, nonché le attività abbinate a servizi pubblici, poli ricreativi ecc.

Un altro problema risiede nel fatto che, in generale, i piani urbanistici regolamentano le varie attività secondo raggruppamenti del tutto nominalistici (commercio, esercizi pubblici, artigianato di servizi, ecc.) sottoponendo a regole spesso del tutto diverse attività che hanno un impatto urbanistico sostanzialmente analogo.

Per le attività affini al commercio la situazione è quantomai confusa. Le sale gioco, per esempio, in alcuni casi sono qualificate come pubblici esercizi e in altri sono considerati servizi privati d'interesse pubblico (destinazione che spesso, prima dalla legge Bersani, comprendeva anche i supermercati, i mercati rionali ecc.). Il cosiddetto “artigianato di servizio” (parrucchieri, corniciai, fotografi, lavanderie ecc.), che oramai, con le nuove leggi, non sono più necessariamente attività artigiane, a volte è considerato come attività artigianale in genere (e quindi produttiva tout court), altre volte è classificato come destinazione autonoma e altre volte ancora è lasciato alla valutazione caso per caso dei singoli uffici. L'ingrosso, poi, sembra non esistere. A volte viene classificato come produttivo, altre come logistica, ma quasi mai come attività commerciale.

In questo modo impostare strategie di sviluppo ordinato e coordinato dei centri urbani diventa pressoché impossibile.

Approccio coordinato

Eppure l'esigenza di un approccio più coordinato è sotto gli occhi di tutti. Facciamo solo qualche esempio, particolarmente visibile nelle realtà urbane.

Le nostre strade cittadine vivono e sono attraenti (e sicure) solo se vi è un flusso costante e più variegato possibile di persone che accedono ai servizi “su strada”. Vi sono attività che attirano continuamente sia avventori sia fornitori o utenti e queste vitalizzano la città. Tali attività possono essere sia propriamente commerciali (negozi e bar) sia di servizio (barbieri, pizza al taglio, agenzie di viaggio, tintorie, riparatori, corniciali ecc.), ma funzionano sostanzialmente nello stesso modo, hanno lo stesso tipo di rapporto con il pubblico e quindi in gran parte gli stessi problemi, le stesse esigenze, la stessa mentalità. Addirittura talune tipologie e attività commerciali vanno sempre di più confondendosi (pizzerie normali o da asporto, gelaterie commerciali o artigiane ecc.) e non ha senso trattarle diversamente e assoggettarle a regole diverse: il risultato è di cercare di creare fenomeni di concorrenza sleale (per esempio a causa dei diversi regimi fiscali cui sono assoggettati) e di rendere più difficile l'avvicendamento di attività diverse negli stessi locali (spesso a causa delle diverse regole urbanistiche), facilitando la presenza di locali vuoti per lungo tempo che fanno decadere l'immagine della strada e la indeboliscono rendendola meno competitiva rispetto alla grande distribuzione e alle strutture periferiche o extraurbane in generale.

Inoltre, la grande distribuzione ha portato a un abbassamento dei margini con cui le attività commerciali operano. Sui grandi volumi questi margini sono sufficienti a sopravvivere, ma per il piccolo operatore comportano difficoltà pesantissime e quindi la chiusura degli esercizi che non riescono a trovare una situazione “di nicchia”, o con una clientela disposta a pagare prezzi più alti per prodotti “normali” o con la vendita di prodotti ad alta qualità o di tipologie particolari (alta specializzazione). Sul prodotto “banale” il valore aggiunto della sola vendita non è sufficiente a tenere in piedi un piccolo negozio, specie se deve pagare affitti resi artificiosamente elevati dalla concorrenza di altre attività che non vitalizzano le strade ma possono pagare molto di più (banche, finanziarie, agenzie di scommesse ecc.).

La risposta, forse l'unica, a portata del piccolo imprenditore, sta nell'aumentare il valore aggiunto, incorporando nel prodotto una quantità maggiore di servizi (assistenza al cliente, riparazioni, consegna a domicilio, personalizzazione dei prodotti, preparazione sul momento ecc.). Questo significa che, per sopravvivere, il piccolo commerciante deve diventare sempre più anche “artigiano” e che l'artigiano deve potere integrare il proprio servizio con la vendita di prodotti affini, anche se non di sua produzione.
Il problema si pone anche nei piccoli centri, dove non esiste mercato sufficiente per attività specialistiche e la crescente desertificazione commerciale porta a un abbassamento della qualità della vita dei cittadini. La creazione di punti di vendita-servizio multifunzionali appare l'unica scelta praticabile.

L'opportunità dei nuovi Pgt

Alla luce di tutti questi problemi ed evoluzioni siamo del parere che il modo in cui gli strumenti urbanistici debbono affrontare la tematica delle attività commerciali e assimilate vada profondamente rivista rispetto alle modalità generalmente incluse nei piani regolatori. Una grande occasione è costituita dal fatto che la maggioranza delle regioni sta legiferando in direzione del superamento del vecchio strumento “piano regolatore generale” e della sua sostituzione con nuovi strumenti programmatori dotati anche di maggiori e diverse capacità e strumentazioni d'intervento (I Pgt in Lombardia, strumenti simili in altre regioni).

L'esperienza operativa ci ha portato (e non solo noi) al convincimento che la regolamentazione urbanistica debba riguardare, sia pure con diversi livelli di approfondimento, non solo il commercio al dettaglio, ma tutte quelle attività che “urbanisticamente” (cioè in termini d'impatto sul territorio) si comportano in maniera analoga, quindi quanto meno:

• i pubblici esercizi di somministrazione di alimenti e bevande;

• le attività del cosiddetto “artigianato di servizio” (acconciatori, estetiste, tintorie, pizzerie e gelaterie artigiane, corniciai, lavanderie ecc.);

• le attività cosiddette “paracommerciali”, quali locali di svago e intrattenimento, agenzie di viaggi, noleggiatori, agenzie di servizi, phone center, internet point., attività soggette a licenza di P.S. ecc;

• il commercio all'ingrosso.

L'estensione della normativa per il commercio a questi altri settori, oltre a favorire uno sviluppo armonico del territorio, serve a qualificare lo sviluppo di tutte quelle attività che si svolgono “sulla strada”, favorendo i processi di reciproca sinergia e rendendo più facile l'avvicendamento di diverse attività negli stessi locali e quindi evitando i rischi di “svuotamento” dei fronti stradali che si verificano quando, a fronte di crisi di mercato di alcuni tipi di attività, non si riesce a operare in tempi brevi la sostituzione con attività economicamente sostenibili.
Queste diverse logiche di pianificazione sono in fase di messa a punto in Italia, con gli studi della Società Sviluppo per Roma, dell'architetto Patrizio dell'Unione Commercianti, del Laboratorio Urb & Com del Politecnico e di Prassicoop Milano, che hanno trovato o stanno trovando applicazione negli strumenti urbanistici di diversi comuni (Monza, Nova Milanese, Muggiò e altri).
Anche Milano sta introducendo nel Pgt in corso di elaborazione alcune concezioni decisamente innovative.
Queste modalità di pianificazione si integrano molto bene con gli obiettivi di valorizzazione dei centri commerciali naturali già esistenti e di sviluppo di nuovi centri naturali o distretti commerciali che diverse regioni stanno inserendo nella propria legislazione urbanistica. È un argomento su cui ci ripromettiamo di tornare.

*Prassicoop

Più

  • Il concetto di sistema commerciale è più coerente alla natura urbanistica del commercio, poco incline a cristallizzarsi in aree predeterminate dalla zonizzazione

Meno

  • I piani urbanistici regolamentano le attività secondo raggruppamenti nominalistici (commercio, esercizi pubblici, artigianato di servizi ecc.) sottoponendo a regole diverse attività
    con impatto urbanistico sostanzialmente analogo

Allegati

Cci2009-Pianificazione
di Renato Cavalli* / giugno 2009

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