Perché le store brand in Italia non vivono un boom spettacolare?

Esperti – In Italia i distributori sembrano non credere troppo in una strategia espansiva dello loro marche private. Anche se le premesse per un'espansione delle vendite ci sono tutte. (Da MARK UP 181)

1.
Fare marketing
per se stessi,
più che un investimento, è una seccatura

2.
Molto meglio specializzarsi
negli acquisti,
che non nella vendita

Questa storia inizia con un test partito in un modo e finito in un altro. Attualmente m’arrovello per spiegare a me stesso prima che ad altri perché le marche private in Italia non vivano uno spettacolare boom di mercato.

Le premesse ci sarebbero tutte: la crisi, le classi medie impoverite ecc. ecc. Da qui una ricerca di Popai che provi come i consumatori confondano i package che imitano il marchio leader, ma ne percepiscono la diversa qualità. Compro pertanto vari prodotti in dieci insegne. Li fotografo e poi chiedo a oltre 1.200 individui di ogni età e istruzione di dirci il nome cancellato dalle immagini. Sorpresa! Gli intervistati, in larghissima maggioranza, riconoscono, non so come, il leader e confondono tutti gli altri. Passando alla qualità oggettiva inizio casualmente dai biscotti e prima di far partire il laboratorio li faccio assaggiare (con e senza confezione in vista) ai miei familiari e ad alcuni collaboratori.

La risposta è quella tradizionale: alla cieca le differenze sembrano minime; rivelando la marca la loro varianza aumenta enormemente. Allora misuro il loro diametro. Conto i forellini e le stelline di glassa delle imitazioni del noto frollino al cacao: …sembrano uguali. Ripeto l’operazione con un frollino al grano saraceno… idem. Poi, butto l’occhio sul nome di chi li produce e apprendo che tutte le insegne (Esselunga, Coop, Conad, Standa,…) utilizzano la stessa industria di Sondrio, che penso appartenga a una prestigiosa azienda dolciaria. Decido che è inutile spendere soldi per avere una risposta scontata: il contenitore è più importante del contenuto.

I processi

Lascio dunque agli amici della distribuzione il compito di abbattere l’ultimo mito, cioè analizzare la composizione chimica delle proprie Pl e di quelle altrui per dimostrare che non ci sono diversità. Secondo me non esistono. Oggi il divario qualitativo sta nelle macchine non nell’ingredientistica. Da perfetto ignorante sospetto che un processo robotizzato di alta ingegneria e iperefficiente, suggerisca, una volta individuato un impasto ottimale, di non fermare gli impianti, pulirli, ricaricarli, riavviarli per ottenere qualcosa di lievemente diverso, ma indistinguibile per il palato dei consumatori. Un risparmio, diciamo, del 10% sul 20% del costo finale non varrebbe la pena. Fossi un manager della distribuzione non perderei tempo a scrivere il capitolato. Lo farei fare al produttore purché mi garantisca ciò che voglio: qualcosa quasi identico al leader di mercato. Ma forse sbaglio.

A ogni modo, di recente, un blind test condotto negli States da Consumer Reports, è giunto a risultati analoghi. Su 29 prodotti alimentari a marchio privato, dai biscotti d’avena ai broccoli surgelati, 23 sono risultati qualitativamente equivalenti o superiori alle loro celebri marche di riferimento.

Perché dunque le Pl hanno una quota ancora ridotta? Perché i distributori italiani (fatte poche eccezioni) sembrano non credere troppo in una strategia espansiva dello loro marche private?

La risposta in un ragionamento

La ragione alla base del ritardo italiano del boom delle marche private è, forse, in questa disequazione:

in cui la differenza tra prezzo di vendita e costo del venduto della marca viene incrementato dal fattore δ, cioè dai vari contributi promozionali, dai premi, ecc.

Il margine della marca commerciale viene diminuito invece dal costo delle promozioni γ e soprattutto da α, il costo psicologico e inerziale derivante dal disturbo di gestire il marketing dei propri prodotti. Fare apprezzare il proprio olio predisponendo il banco con le ciotoline e i pezzetti di pane è una seccatura.

Comunicare sul Pop come si possa avere la qualità a un prezzo più basso, è complicato. E via dicendo. Con tutte le marche che fanno ressa per un buchetto sullo scaffale, quanto elevata deve essere la redditività delle Pl per compensare i fastidi menzionati? Razionalmente deduco che questa differenza, vista l’attuale inclinazione dei grandi brand alla promozione non giustifica sforzi maggiori in questa direzione.

Tutto ciò anche se alla domanda dell’indagine Popai “Cosa ti convincerebbe a comprare le marche del distributore?” gli Italiani indichino nel 44% dei casi: “un assaggio, una prova” e nel 23%: “niente!” Solo il 22% dice: “un forte sconto”.

La percentuale di coloro che ritengono il rapporto qualità/prezzo delle Pl superiore a quello dei grandi brand oscilla dal 25 al 50% (a seconda delle categorie). Eppure… tra lo sforzo di vendere meglio le proprie marche e quello di comprare ancor meglio quelle altrui, la nostra distribuzione sembra preferire la seconda.

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