Pratiche sleali: il compromesso finale non convince

Gli opinionisti di Mark Up (Mark Up n. 276)

Ci sono voluti 6 incontri tra le istituzioni europee per arrivare a un testo condiviso e sciogliere il nodo principale intorno al quale si è accesa la discussione: quali sono i soggetti che devono essere tutelati dall’eventuale esercizio di pratiche sleali? Risposta: le piccole e medie imprese agricole, cioè la componente più debole della filiera: come prevedeva il testo originario della direttiva. Poi, l’ambito di applicazione è stato allargato a tutti i fornitori della gdo, di qualsiasi dimensione. Il compromesso finale introduce un limite a questo ampliamento: le pratiche sleali varranno per aziende con fatturato annuo fino a 350 milioni di euro. È accettabile questa soluzione? Per noi, no. Abbiamo sempre sostenuto l’impostazione iniziale della direttiva e, pur riservandoci un giudizio definitivo dopo aver visionato il testo, bisogna evidenziare che la formulazione attuale incrementa il potere negoziale della grande industria sulla distribuzione commerciale, con possibili impatti negativi anche per il consumatore finale. Rimane poi un altro aspetto rilevante: perché si deve considerare il mondo dei fornitori come oggetto di sopruso da parte dei distributori, e non l’ipotesi opposta? Alcuni brand industriali sono così indispensabili da avere il coltello dalla parte del manico, con la possibilità di mettere in atto a loro volta pratiche sleali, soprattutto in un quadro italiano in cui la gdo è frammentata e si deve confrontare con imprese industriali di grandi dimensioni. Sarebbe necessario introdurre il concetto di reciprocità, tutelando anche la distribuzione nei confronti dei grandi marchi industriali. Come è in Italia con l’articolo 62, un esempio che però si fa fatica ad esportare.

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