Private label vs marca propria, un conflitto spesso apparente

Esperti – Gran parte delle aziende produce oggi oltre il 50% del fatturato per il mercato delle private label. (Da MARK UP 177)

1.
La produzione di marche del distributore non entra necessariamente in conflitto con la propria

2.
Separazione delle due attività sul piano gestionale e organizzativo

Provate a entrare in un supermercato e a chiedervi quante delle marche esposte in assortimento potrebbero essere considerate “brand” nell’accezione più profonda del termine, agli occhi dei consumatori? Quante hanno migliorato il loro posizionamento da quando esiste la distribuzione moderna in Italia? Una sicuramente è Rana, la “multinazionale tascabile”, come ama definirsi, che fino a 20 anni fa produceva in un laboratorio artigianale. Poi i giganti che sempre ci sono e ci saranno, vedi Ferrero e Coca-Cola. Le altre marche sono fra “color che son sospesi”, divise (o incerte) tra produzione conto terzi e faticosa affermazione del loro brand sul mercato. È proprio a causa di questa contraddizione che le imprese faticano a maturare una strategia di crescita su mercati nazionali e internazionali sempre più competitivi. Gran parte delle aziende produce oggi oltre il 50% del fatturato per il mercato delle private label: alcune quasi si vergognano ad ammetterlo, altre ne fanno invece un vanto. In realtà, produrre per le marche del distributore non è un’attività anomala, a patto di esserne consapevoli. Per altri, il business industriale di produzione differisce molto dai processi “marketing-oriented” che portano all’affermazione della marca, in virtù di svariati fattori (organizzazione, volumi, margini e investimenti in comunicazione).

Conflitto di ruoli

Il fenomeno colpisce tanto l’alimentare quanto il non-food: proprio in quest’ultimo settore è ancora più evidente come le aziende stiano distogliendo attenzione dal valore dei propri brand per concentrarsi sulle marche commerciali. In Italia il mercato delle private label, pur continuando a crescere, presenta caratteristiche specifiche rispetto a Gran Bretagna e Svizzera: poca innovazione e molto “me-too” di prodotti esistenti, a parte poche insegne che puntano su qualità e modernità. Il risultato più frequente è di venir trattati come biechi terzisti. Solo in pochi casi fortunati sono richieste novità produttive su specifiche, però, dell’insegna. In un modo o nell’altro questo è un ruolo puramente industriale, dignitoso, ma con le sue regole.

Altra cosa è valorizzare i propri marchi sul mercato, specialmente quelli con più possibilità di differenziazione, con investimenti di marketing mirati oppure innovare da zero con nuovi prodotti o funzioni d’uso. In teoria tutto è chiaro: in pratica le aziende si consumano nel dilemma private label o marca, inseguendo i distributori per fare i volumi per poi lamentarsi dei margini e della mancanza di tempo e idee per investire sui gioielli di famiglia. Varrebbe la pena scorporare le due attività dal punto di vista sia gestionale sia organizzativo: come fa lo stesso direttore commerciale a firmare il contratto con una centrale e poi a candidarsi come produttore di marca commerciale?
Nasce un evidente conflitto d’interessi e di ruolo.
A meno che non si tratti di casi, sempre possibili, di doppia personalità!

*M&T

Sfortunati

Fare private label nel settore beverage non è facile: una sola azienda con tutti i suoi marchi è quasi monopolista in tutto il mondo e si chiama Cott. Tempi duri anche per loro con l’avvento delle bevande di nicchia…

Di nicchia

Il mercato dei soft drink è ormai globale, con pochi marchi leader che presidiano il comparto controllando sia gli investimenti di marketing sia la rete commerciale. L’unica strategia percorribile è quella delle bevande di nicchia: dopo gli “energy drink”, ecco le naturali, realizzate con ingredienti biologici, dai colori “veri”: fiori di sambuco, zenzero e carote, limonata di fragole, mela non filtrata. Tutte in bottiglie da 33 cl, le trovate sulle tavole dei locali più trendy: impossibile, per adesso, comprarle al supermercato.

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