Temporary retail, realtà tutt’altro che a termine

ECONOMIA & ANALISI – Ormai è certo che i temporary store non si possono più considerare una moda passeggera o un fenomeno marginale. Per numero e varietà d'offerta i negozi a tempo in Italia e nel mondo includono ormai tutte le categorie di prodotti e sempre più anche i servizi. (da MARKUP 206)

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Uno degli aspetti di maggiore attualità, forse trascurato all'inizio, riguarda l'ingresso di nuovi profili professionali e figure economiche che si riconoscono oggi come tali e distinti, tanto da richiedere una propria associazione di categoria, Assotemporary, costituita nel 2008 a Milano presso Unione del Commercio Turismo e Servizi, e una fiera specifica (Temporary World, Milano, 10-11 novembre 2011).
I casi più noti e storici di temporary store sono riconducibili alle iniziative delle marche industriali come Nivea, Reebok, Levi's, Saeco, Spalding, Ferrero e molte altre; ma gli spazi e gli operatori classificabili come "temporary retailer", dotati di una propria insegna che può rinunciare o addirittura competere con quella dei marchi ospitati, almeno per attrazione e relazione fiduciaria con i clienti, costituiscono ormai una realtà affermata e in crescita.
Dal punto di vista delle relazioni con il mercato finale (i consumatori), i fattori più rilevanti per distinguere la diversa natura dei formati e degli obiettivi rimandano, oltre che all'insegna, all'assortimento (mono o multi marca, completo o parziale), al pricing (che può variare dai prezzi pieni o di listino ai prezzi promozionali, fino a logiche addirittura di sell-off) e ovviamente alla location (centrale o periferica). Il controllo e la definizione di questi aspetti, aggiunti al ruolo preminente della marca o dell'insegna, configurano gli assetti di marketing leadership tra partner commerciali.

Servizio: fattore decisivo
Per quanto riguarda il profilo professionale del retailer, sono importanti i servizi offerti, o meglio, le attività di gestione presidiate dall'insegna stessa rispetto a quelle delle imprese o dei marchi ospitati. Il livello minimo di servizio è rappresentato dalla semplice cessione temporanea dello spazio: in questo caso, più che di un retailer si dovrebbe parlare di operatore immobiliare.
Quanto più, invece, il distributore (oggi prevalentemente a livello locale, domani su reti diffuse) è in grado di offrire, o addirittura imporre ai partner industriali, servizi di gestione dell'offerta commerciale, tanto più esercita il ruolo di vero e proprio "temporary retailer" che nella sua massima espressione si occupa di tutte le funzioni e assume tutte le responsabilità tipiche di un retailer tradizionale: dalla titolarità dell'autorizzazione commerciale alla realizzazione delle attività per l'impianto o l'allestimento del punto di vendita (a ogni cambio di offerta), fino all'assunzione dei contratti di utenza, alla gestione del personale, alla progettazione e realizzazione delle azioni promozionali, di in-store marketing e di animazione e intrattenimento (aspetto qualificante della formula), per arrivare alla gestione commerciale dell'assortimento e della vendita.
Come si può vedere dalla grafica, ci sono formule ibride che tendono a configurare il retailer ora come una sorta di franchisee anomalo, ora come un reparto di grande magazzino con formula shop-in-shop. In ogni caso, la natura del fenomeno è molteplice, con implicazioni non solo economiche, ma anche giuridiche e fiscali varie e complesse per tutte le parti coinvolte.
Per l'industria il temporary shop rappresenta un'opzione per le politiche di comunicazione ancor più che di distribuzione, ma proprio la varietà di alternative richiede una attenta selezione della formula e dei partner.

Dalla logica immobiliare al full service
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