A lezione di «pubblicità civile» dal creativo Paolo Iabichino

Nella lectio magistralis del pubblicitario il futuro della comunicazione d'impresa, che "non dovrà partire dal mercato ma dalla società"

La pubblicità civile è "l'ultimo anello di una catena di responsabilità che l'azienda deve favorire dal proprio interno, agendo sui propri modelli di business, agendo prima di tutto sulla propria compagine in maniera etica e sostenibile, quindi prima di tutto verso le persone e le filiere". Questa la visione del direttore creativo e scrittore pubblicitario Paolo Iabichino, che in quanto primo ambassador sul tema ha fondato con Ipsos Italia l'Osservatorio Civic Brands.

Una prospettiva tanto sfidante quanto imprescindibile per il futuro del marketing e delle imprese, come delineato da Iabichino nel corso di una lectio magistralis all’Università di Urbino Carlo Bo. La lezione si è tenuta in occasione del conferimento allo scrittore della laurea magistrale honoris causa in "Comunicazione e pubblicità per le organizzazioni".

Già nel 2014, con l'exploit delle piattaforme digitali e il moltiplicarsi delle presenze di marca sui principali social, Iabichino scriveva: "Se parto da Facebook per raccontare una storia, subisco il ricatto di quella grammatica, inseguo il numero di like e finisco per perdere di vista l’epicentro del mio racconto. Di questi tempi, partire dai social network è un errore comune: lo fanno i cosiddetti piacioni della pubblicità. Non si preoccupano di consumer insight e rilevanza, sono in ansia per il numero di fan. La quantità viene prima della qualità".

Una qualità che oggi deve essere sempre più sostanziale, legata sì a un brand purpose nobile, ma concretizzato in azioni coerenti e nell'attivismo: “Le istanze più urgenti non arriveranno dal mercato, ma dalla società. Occuparsene potrebbe non portare alcun vantaggio nel quarter che sta per concludersi, ma nel lungo periodo sarà il patrimonio narrativo su cui l’azienda potrà poggiare la sua reputazione negli anni a venire.”

A dominare il domani, del resto, saranno i ragazzi e le ragazze della Generazione Zeta, ovvero "i più giovani, i più difficili da fidelizzare, quelli che tra qualche anno avranno il maggior potere d’acquisto, nativi digitali e che scelgono di comprare solo da chi sa stare sul mercato in maniera trasparente, equa e responsabile. Sono loro il nuovo target (sic) da conquistare, sono fluidi, sfuggenti e non si lasciano convincere tanto facilmente. A differenza dei Millennial, questi nuovi pubblici sembrano impermeabili alle lusinghe dello storytelling social-eticoresponsabile e chiedono alle imprese impegno, azioni, nuovi patti di relazione che trascendano le promesse della pubblicità per proporre nuovi modelli di mercato".

Una chiamata al cambiamento e alla rilevanza anche per lo stesso mondo della comunicazione: "A furia di insegnare la poetica del racconto e le arti dello storytelling, spesso abbiamo finito per banalizzare una serie di significanti che hanno bisogno di meno narrazione e di molto più agito. Abbiamo desemantizzato il lessico del nostro mestiere finendo per compromettere la fiducia di chi ci dovrebbe ascoltare".

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