A Pompei fa più danni lo Stato del Vesuvio

La gestione pubblica dei beni culturali reca con sé gravi contraddizioni intrinseche che ne compromettono l'efficienza e l'efficacia, con danno dei cittadini. Ciò non significa che il pubblico sia assente dal processo, ma solo che deve occuparsene, in modo rigoroso, negli ambiti che propriamente gli competono, senza cadere nel conflitto d’interesse di chi controlla e al contempo cura la gestione.

Ha destato, come sempre, un po' di polemiche la mancata apertura del sito di Pompei a capodanno, pare lasciando 2.000 turisti fuori dai cancelli. Scelta che peraltro il Ministro della Cultura Franceschini ha difeso. Tutto ciò è accaduto, fatto emblematico, proprio nel giorno in cui l'85% dei vigili urbani di Roma non è andato al lavoro per motivi di salute.

Si tratta di un nuovo, ulteriore esempio del perché la gestione dei beni culturali in mano pubblica è il modo meno efficiente ed efficace. Ogni volta si ritorna a polemizzare su specifici comportamenti, ma sembra che lo si faccia per "buttare un po' di fumo negli occhi dell'opinione pubblica", occultando il vero problema. Perché la gestione pubblica, a parità di capacità e buona volontà dei suoi manager e dipendenti, è meno efficiente ed efficace di quella privata? Ci sono diversi motivi, ma fondamentalmente perché essa si realizza attraverso procedure che sono dettate non dal mercato, ma dal rispetto delle regole di diritto amministrativo. Regole che sono completamente diverse da quelle tipo non giuridico elaborate e sperimentate con successo dalle teorie manageriali, e quindi da quegli studiosi di management e che si interessano alle applicazioni concrete della propria attività di ricerca. Tali regole, in opposizione a quelle del diritto amministrativo, prevedono in particolare: visione strategica aperta, autonomia e discrezionalità della gestione, procedure snelle per ridurre i rischi, creatività nei comportamenti e incentivazione economica rispetto ai risultati perseguiti.

In secondo luogo la presenza pubblica condiziona fortemente la selezione del personale e soprattutto dei manager, attraverso l'interferenza della (sotto)politica. In terzo luogo, ma collegato a quanto appena detto, esiste una diffusa (e sciagurata) opinione per la quale i dirigenti che sono chiamati a gestire il patrimonio culturale devono avere una solida preparazione culturale, magari essere degli ottimi storici dell'arte, ma non avere interferenze formative di tipo economico-gestionale, come se questi aspetti svilissero la conservazione e valorizzazione del nostro patrimonio: insomma non devono operare secondo logiche manageriali. Non giova inoltre la confusione diffusa fra economisti della cultura e manager dei beni culturali, che porta a selezionare figure di economisti per incarichi che richiedono competenze manageriali. A tutti è ben nota la differenza fra i contenuti e i metodi dell'economia politica rispetto all'economia aziendale, fin dal primo semestre dei corsi di laurea di economia.

Va peraltro chiarito che il ruolo del pubblico, nel settore della cultura, resta estremamente importante. Il pubblico e lui solo deve fissare le regole per la gestione del patrimonio culturale, ivi incluse quelle relative alla sua tutela, conservazione e valorizzazione. Il pubblico e lui solo deve controllare che i gestori a cui è affidata la gestione del proprio patrimonio culturale rispettino le regole. E sempre al pubblico spetta l'attribuzione di incentivi a coloro che non sono in grado di pagare il prezzo di mercato per usufruire dei servizi del mondo della cultura, realizzando politiche culturali che favoriscano il senso di coesione sociale, che solo un popolo culturalmente preparato può sviluppare.

Uno stato che fa bene queste tre cose -fissare le regole, controllare la loro corretta applicazione e incentivare il consumo di beni e servizi culturali nel quadro della politica di redistribuzione del reddito- non può certo essere anche il gestore di tali beni: si troverebbe, infatti, in palese conflitto di interessi. Certo, la politica perderebbe la possibilità di effettuare nomine clientelari e di orientare la scelta dei manager, ma tutto ciò potrebbe solo andare a beneficio del cittadino, sia inteso come utente, sia come contribuente.

Se mai un sito come Pompei verrà gestito da un privato qualificato, scelto con una gara internazionale e dotato di esperienza e standing adeguati, impegnato anche con la garanzia di una fideiussione bancaria a comportarsi correttamente, rischieremo di vedere che l'Erario può persino guadagnare da un simile straordinario patrimonio. E non accadrà più non solo il piccolo scandalo (l'unico di cui però si sono accorti i media) di vedere chiuso un sito come Pompei a capodanno, ma soprattutto di vedere che solo 2.000 turisti erano interessati a vederlo: sembra incredibile raccogliere un interesse di pubblico così risibile in un luogo così magnifico, solo la cattiva gestione può riuscirci!

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