Abbigliamento: la raccolta dell’usato è fondamentale. Solo all’estero?

Consumare meglio – Per beneficenza o per riciclo dei materiali, i capi dismessi possono essere una risorsa. (Da MARK UP 188)

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1.
Le insegne fungono
da supporto
per i consumatori
2. Che devono
essere sensibilizzati sulle donazioni

È di recente pubblicazione la notizia che vede H&M protagonista di una vicenda legata all’abbigliamento invenduto. Il retailer svedese è stato accusato di aver abbandonato fuori dal negozio di Herald Square a New York delle borse contenenti indumenti nuovi, distrutti per non essere indossati, e mai venduti. La segnalazione, che proviene dalle pagine del The New York Times, è stata subito smentita da un portavoce di H&M che ha confermato, invece, l’attitudine dell’azienda a donare i capi mai venduti ad associazioni benefiche. Nello stesso periodo un altro colosso come Walmart viene additato per la stessa pratica. I due fatti di cronaca americana appena descritti ci permettono di valutare come i retailer affrontano la problematica dei capi di abbigliamento invenduti. Nella speranza che quanto accaduto sia solo un fatto sporadico o non veritiero, certo è che i capi non venduti andrebbero donati ad associazioni onlus per permettere a questi prodotti di godere di una seconda vita oltre che evitare di gettare qualcosa che potrebbe essere una risorsa in contesti di emergenza o indigenza. Dal canto loro, anche i consumatori avvertono lo stesso problema: cosa fare di quei capi non più indossati e rimasti nell’armadio? A questa domanda qualche retailer prova a dare una risposta attivandosi con iniziative di raccolta.

Esempi oltreconfine
Ci dispiace ammetterlo ma, dopo un’indagine condotta sul web, dobbiamo considerare che gli esempi più noti di retailer attivi nel reimpiego degli indumenti risiedono all’estero. Elena Mirò, brand di abbigliamento taglie morbide del Gruppo Miroglio, sembra essere tra i pochi a essersi attivato con un’iniziativa di raccolta di capi usati a cui poter dare una seconda vita. Fulcro del progetto sono i pdv della catena dove le clienti possono portare gli indumenti dismessi ricevendo un buono sconto. I fondi ottenuti sono così destinati a un progetto curato da Humana People to People Italia onlus. Oltreconfine, invece, sono più frequenti i casi di retailer attivi nella raccolta dell’usato. Il giapponese Uniqlo ha iniziato, per esempio, già nel 2001 al fine di aiutare i paesi in via di sviluppo. Ciò che non è più riutilizzabile come vestiario viene riciclato per la realizzazione di isolamento termico (6%) o per la generazione di carburante (10%). Nel 2009 ha annunciato di aver raccolto 2,62 milioni di indumenti usati durante la sua campagna di sensibilizzazione con una crescita sul 2008 pari al 165%. Spinto sempre dalla solidarietà, anche Marks & Spencer, in partnership con Oxfam, incoraggia i consumatori a donare i loro abiti dando un buono da spendere nei negozi dell’insegna. Di diversa natura, invece, l’opera di Patagonia che con il piano Common Threads Recycling program pensa all’ambiente e ricicla i propri capi o quelli di altri brand per produrre nuovi indumenti diminuendo la dipendenza dalle risorse vergini. Semplice la raccolta: i capi possono essere spediti presso il Patagonia Service Center o lasciati in uno dei negozi della catena. Sarà, invece, una novità di questo autunno la nuova etichetta dei prodotti Levi Strauss che, con l’obiettivo di aumentare il ciclo di vita dei capi, introdurrà una dicitura che invita a donare i vestiti dismessi. “A care tag for our planet”, questo il nome dell’iniziativa, mira a evitare che milioni di capi finiscano in discarica. Nel frattempo in Italia il retailer ritira jeans usati in cambio di un buono sconto.

Patagonia insegna
76% il risparmio energetico con il riciclo dei materiali rispetto all’uso di materia prima vergine

Più

  • Il recupero riduce i costi di smaltimento

Meno

  • Pochi i retailer che adottano azioni di rivalorizzazione


Nel Pdf la tabella con le inziative di recupero di alcune insegne.

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