Addio Irpef; evviva l’Iva ma la via resta davvero molto stretta

Esperti – Effetto regressivo sui consumi, con le fasce povere a pagare il peso maggiore, e perdita di competitività del sistema turistico le possibili conseguenze. (Da MARK UP 186)

1. Dalle persone alle cose, con tanti problemi
di aliquote

2. Migliora la competitività dell'export-lavoro; peggiora quella verso
il turismo incoming

Ancora sul fisco. Della cosiddetta riforma fiscale sembra sopravvivere l'idea del 'passare dalle persone alle cose' nella definizione delle basi imponibili. Genericamente suggestiva, essa crea forti perplessità se implica - come è stato ventilato - uno spostamento di gettito dall'Irpef all'Iva mediante incremento delle aliquote su quest'ultimo tributo. Le problematiche riguardanti il profilo teorico dell'imposizione indiretta oggi vengono ritenute irrilevanti. È considerato ingenuo chi ricorda che un'imposta sul consumo, creando una distanza tra prezzo ricevuto dal produttore-venditore e prezzo pagato dal compratore, distrugge benessere che non è compensato dal maggiore gettito dell'imposta.

Progressività cartacea

Allo stesso modo si trascura il fatto che mentre un'imposta o un sussidio sul reddito generano costi e benefici completamente gestibili dal consumatore finale, che rialloca la sua spesa in modo autonomo, invece con imposte o incentivi su particolari beni, egli resta vincolato a qualcosa che gli viene imposto e che etero-dirige le sue scelte di consumo. Infine, si tende a dimenticare l'effetto gravemente regressivo delle imposte sui consumi: poiché i ricchi presentano una frazione di consumo rispetto al reddito largamente inferiore rispetto a quella presentata dai poveri, questi ultimi pagherebbero una proporzione maggiore di imposte. La progressività cui è ispirato il nostro sistema tributario resterebbe soltanto sulla carta (ancorché costituzionale). Ora, pure dimenticando queste considerazioni, rimane la questione di come e, in particolare, di quanto gettito spostare dal lavoro (le persone) ai consumi (le cose). Semplifichiamo al massimo e approssimiamo davvero rozzamente le cifre.

Approssimazione

In Italia vi sono tre aliquote, secondo le direttive comunitarie: due ridotte, al 4% (in deroga) e al 10% e una di base al 20%. Quest'ultima è già in linea con il resto d'Europa oppure più alta, almeno con riferimento alle economie più mature.

Se si vogliono spostare risorse pari al gettito, per esempio, di tre punti percentuali Irpef (circa 24 miliardi di euro, cioè tre moltiplicato ogni punto percentuale di un imponibile Irpef di 800 miliardi di euro), è necessario aumentare o tutte le aliquote oppure rimodularle per ritrovare questi quattrini. Poiché l'imponibile Iva può essere stimato attorno ai 900 miliardi di euro e il relativo gettito è di circa 116 miliardi di euro, con un'aliquota effettiva del 12,9%, sarà opportuno alzare tutte le aliquote Iva mediamente di 2,67 punti (24/900). L'aliquota di base si avvicinerebbe al 23% mentre la minima, quella sui beni alimentari la cui specifica propensione al consumo più elevata è appannaggio delle famiglie meno abbienti, passerebbe dal 4 al 6,67, con un incremento in percentuale del +67%.

Così si realizzerebbe lo sgradevole risultato di aumentare le imposte complessive pagate dai redditi più bassi: per un pensionato appartenente alla no tax area le imposte complessive (sostanzialmente l'Iva) crescerebbero appunto di quasi il 70%.

D'altra parte, si potrebbe obiettare che aumentare l'aliquota di base è fuori luogo perché l'attuale debolezza della domanda interna non consente di comprimere ulteriormente gli scambi.
Ma se si volesse lasciare l'aliquota di base costante è evidente che quelle agevolate (su consumi basici) dovrebbero crescere in misura intollerabile. La via è, insomma, stretta.

Anzi, strettissima se si considera pure che la manovra di modificazione del gettito dalle persone alle cose, ove si intenda dall'Irpef all'Iva, solo apparentemente migliorerebbe la competitività delle nostre esportazioni via minore costo del lavoro. Infatti, una quota rilevante del saldo estero è costituita da una forma particolare - e stranamente trascurata - di esportazioni, cioè il saldo tra le spese in Italia dei non residenti (il turismo incoming), e le spese all'estero dei residenti.

Lo sviluppo dell'Iva comporterebbe una perdita di competitività del nostro sistema turistico via maggiori prezzi interni (in contrasto con quanto indicato dal governo nel Libro Bianco del 1994 sulla riduzione dell'Iva dal 9% al 6% per i beni e servizi legati ai consumi turistici).

Lavoro come fattore di crescita

Certo, una ragione fondamentale per ridurre l'imposizione sul lavoro c'è: il lavoro, infatti, è l'unica risorsa che abbiamo veramente e va incentivata la sua offerta come fattore di crescita e sviluppo di lungo termine (magari rammentando che il nostro più unico che raro articolo primo della Costituzione assegna proprio al lavoro un ruolo fondativo del nostro stare insieme politico). Per tenere insieme le cose, la soluzione sarebbe quella suggerita nell'ultimo numero di MARK UP. Ridurre drasticamente le aliquote legali Irpef sviluppando contemporaneamente la lotta all'evasione in modo consistente, così da ridurre gli incentivi per condotte fiscali scorrette, facendo emergere base imponibile e gettito. Del resto, con una stima di reddito lordo nascosto al fisco pari a 250 miliardi di euro qualsiasi esercizio sia teorico sia applicativo di rimodulazione della pressione fiscale è oggettivamente poco credibile.

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