Alimentare, l’eccellenza del prodotto non basta più

Un’analisi di Standard Ethics segnala l’importanza di curare ogni dettaglio della gestione e della rendicontazione. Così i fattori Esg diventano cruciale per il successo delle imprese

Proporre prodotti d’eccellenza non basta più. Per farsi strada nel mercato alimentare è altrettanto importante curare gli aspetti organizzativi, tenere sotto controllo i rischi e rendicontare i risultati ottenuti sul fronte Esg. Sono alcuni dei risultati che emergono dal Food&Beverage Sustainability Italian Benchmark Report, realizzato da Standard Ethics e presentato a maggio 2022 in un convegno a Milano.

La famiglia conta

Secondo l’analisi, la presenza di azionisti fondatori e di controllo (spesso familiari) costituisce un elemento prezioso nella storia e nel racconto del saper fare italiano.
Tuttavia non mancano i fattori di debolezza tra le aziende nazionali del settore, dato che “la nozione di sostenibilità appare ancora confusa con la filantropia, con principi soggettivi di natura etica, con il concetto di responsabilità sociale di impresa o con meri obblighi di legge, generando così ambiguità nella nomenclatura e nella terminologia della comunicazione”, si legge nello studio. Approcci che spesso deviano rispetti a temi centrali, come - ad esempio - la gestione dei rischi Esg, la parità di genere, i criteri di selezione quali-quantitativa degli amministratori o la fiscalità, per citare solo alcuni aspetti.

Punti di forza e di debolezza

L’agenzia di rating ha creato benchmark dell’industria food and beverage italiana in tema di sostenibilità, dal quale emerge che il nostro è un Paese all'avanguardia in questo settore, in cui operano e nascono molte delle industrie più rinomate e significative a livello globale. Sono state selezionate 30 aziende tra le 50 più grandi del comparto (tra quotate e non), alla luce di una serie di filtri: la dimensione economica (fatturato prossimo ai 500 milioni di euro o superiore); rendicontazione Esg; qualità della disclosure e disponibilità di documentazione pubblica multilingua. Gli analisti di Standard Ethics hanno preso in considerazione le strategie aziendali di sostenibilità, gli elementi di corretta concorrenza, la qualità della comunicazione in tema di sostenibile, eventuali eventi controversi e infine la reportistica sui prodotti.

Tra le trenta società analizzate, emerge che diciassette si sono dotate di target ambientali ben definiti, mentre tredici aziende ne sono ancora sprovviste.

Dallo studio emerge in generale una particolare cura e attenzione ai principi di sostenibilità dal lato del prodotto e della filiera correlata ad una ampia applicazione delle buone pratiche Esg circa i sistemi di produzione. Mentre risulta debole l’adozione di principi di sostenibilità inerenti al produttore, i suoi modelli di governo, i suoi azionisti. Per quanto riguarda la presenza di certificazione di qualità dei prodotti, 20 sono dotate di certificazioni riconosciute a livello internazionale, mentre le restanti dieci non presentano ancora attestati sulla qualità significativi al fine dell’analisi. In linea generale, la qualità del prodotto e la sua sostenibilità sono curati secondo gli orientamenti internazionali e adeguatamente rendicontati.

Indietro sul codice etico

Gli autori dello studio rilevano che ben 23 aziende su 30 hanno davanti a sé ancora spazi più o meno ampi per implementare il proprio codice etico secondo le linee guida Ocse, i principi tassonomici della Ue o dell’Onu.

“Riferimenti che nell’ambito di strumenti di gestione dei rischi (come i modelli 231) acquistano una importanza significativa perché offrono evidenza di quale sia la scelta strategica adottata dall’azienda in tema extra finanziario: allinearsi alle sfide globali e misurarsi con target definiti, oppure preferire una via propria ed autonoma, non condivisa a livello internazionale”, si legge nel report. In particolare, solo quattro si sono dotate di regole ben definite relativamente ai fornitori.
Ancora maggiore è il ritardo sul fronte dell’apertura del cda a soggetti esterni. Solo tre aziende hanno una quota di consiglieri indipendenti maggiore o uguale al 50%; sei sono sotto al 50%, dieci non hanno amministratori indipendenti nel cda e le restanti 11 non divulgano nessuna informazione a riguardo.
Insomma, c’è ancora tanta strada da fare per allinearsi alle migliori pratiche internazionali e, per questa strada, puntare ad acquisire una maggiore competitività a livello globale.

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