Anche un brand ha una personalità. Che influenza l’equity

Cristina Lazzati, direttore responsabile di Mark Up e Gdoweek

Nel mondo del marketing siamo tutti concentrati a capire come interrelare gli innumerevoli media che ci circondano, a domare e irreggimentare i loro effetti, a cercare di prevederli, talvolta a prevenirli. L'enorme attenzione che poniamo nello sviluppo di una strategia di comunicazione omnicomprensiva non deve però distoglierci dal continuo monitoraggio degli elementi che compongono la nostra brand equity, perché se i mezzi per raccontarla si sono moltiplicati, se la tecnologia ci fornisce degli assist importanti per palleggiare il medesimo concetto da una parte all’altra dell’etere, da quanto tempo non riflettiamo su come i cambiamenti sociali e storici abbiano influito sulla personalità del nostro brand? L’esperto di marketing statunitense, David Aaker, scrisse, nel 1991, Managing Brand Equity, dove tratteggiò le linee essenziali per “comprendere” la marca attraverso la sua umanizzazione. La figlia di Aaker, Jennifer, docente prima alla UCLA e oggi a Princeton, ha continuato questo lavoro fornendo elementi che mettessero in grado i brand manager di seguire ed evolvere il “carattere” più delle caratteristiche della marca. Un punto a favore di questa teoria è la predisposizione dell'essere umano a rendere antropomorfa qualsiasi cosa e, perché no?, la marca (o il brand). Elemento che, in una forma o nell’altra fa parte della sua vita, firmando oggetti del desiderio o di uso comune, attraverso uno spot che passa in tv o in maniera virale sui social network. Quanti di noi si sono sentiti “attratti” da una marca, per assonanza “mi assomiglia”, oppure per differenza “mi intriga”. Il sesso del brand è sempre stato importante, il cowboy del Marlboro Country ha creato un modello maschile deciso, che ha coinvolto molti giovani e respinto il pubblico femminile. Al contrario Chanel ancora oggi è percepito come un brand totalmente femminile. I tempi però sono cambiati, così come le abitudini di consumo. Oggi il cowboy Marlboro è obsoleto (così come lo è il fumo), perché i modelli maschile e femminile si sono evoluti nel tempo. Eppure, molti costrutti di marca sembrano non essersene accorti. Inoltre, nei top brand sono moltissimi i brand “neutri”. Un esempio per tutti è Apple che rischiava, per nascita, di appartenere al mondo maschile (ma perché limitarsi a metà del cielo quando lo puoi avere tutto?) e allora l’immagine del brand ha preso nel suo design forme più tonde, morbide, tipiche del linguaggio femminile, ha introdotto nella comunicazione uomini imbranati e donne iperorganizzate. Altro brand che ha capito benissimo l’evoluzione sociale è Dove che, nella sua femminilità, ha conquistato il cuore maschile interpretando al meglio i tratti dell’uomo evoluto, più attento e presente nei compiti e affetti legati alla famiglia. In sintesi, attenzione ... mentre facciamo un update per rendere la nostra comunicazione in grado di sfruttare i nuovi strumenti, non dimentichiamo che anche i contenuti devono evolvere. Il brand per coltivare la relazione con ogni singolo cliente deve continuare a crescere con loro. No quindi ai brand sempre uguali a se stessi!

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