Ancora sulle clausole iva

Gli opinionisti di Mark Up (da Mark Up n. 283)

Qui niente critiche al (nuovo) governo e al suo programma (che è pura propaganda). Restano irrisolti, però, i nodi della finanza pubblica. Il dibattito politico-mediatico sulle imposte indirette è rivelatore di pregiudizi e difetti di visione delle nostre élite. Alla
svagatezza di alcuni illustri accademici che sarebbero favorevoli a un incremento dell’Iva, sulla scorta di indimostrati teoremi e inesistenti evidenze empiriche (l’Iva è definitivamente tra le peggiori imposte in termini di effetti sulla crescita e sull’equità), si associa la fantasia dei politici che, dichiarando di non volerla aumentare, propongono di aumentarla attraverso un repertorio grottesco di selettività (più imposizione sui beni di lusso (!) tipo il frigorifero o i succhi di frutta), modifica delle basi imponibili (un bene o un servizio si sposta a un’aliquota superiore), folli meccanismi di credito d’imposta per chi acquista con strumenti elettronici di pagamento. Tutto ciò è retaggio di un mai morto catto-comunismo per il quale il lavoro è buono mentre il consumo è cattivo. Ci sarà una ragione per cui noi, e non gli Usa, siamo fissati con le imposte e, in particolare, con le indirette: noi fondati sul lavoro (in realtà sul posto di lavoro), gli americani sulla ricerca della felicità. Le cose che leggiamo sull’Iva sono quasi sempre fesserie. Se le clausole prevedono uno spostamento di risorse pari a 23 miliardi di euro dal settore privato a quello pubblico, allora anche selettività, modifica delle basi imponibili, meccanismi di credito d’imposta devono tutti portare tali risorse aggiuntive nelle casse dello stato. Viceversa, le clausole sono false (purtroppo sono vere). Vedete altre possibilità?

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