Benessere aziendale al vaglio delle attuali grandi trasformazioni collettive e individuali

Nell’era dell’iperidentità, le aziende devono adottare modelli scientifico-umanistici capaci di leggere e rispondere in maniera innovativa alle istanze dei lavoratori in termini di soddisfazione e benessere lavorativo

La chiave della prosperità economica è la creazione organizzata dell’insoddisfazione” osservava, nel 1917, il direttore della General Motors, Charles Kettering. Oggi, dietro queste parole, si può leggere tutta la lunga storia del marketing che si protratta fino ai giorni nostri abbracciando e facendo proprie tutte le trasformazioni che di sono succedute nel tempo, non ultima quella digitale, che ha scardinato e rimodellato vecchi paradigmi aprendo a innovazioni e facendo emergere potenzialità prima difficilmente concepibili. Tuttavia, l’insoddisfazione di cui parla Kettering non è solo qualcosa applicabile alla persona in quanto consumatore di beni e servizi, ma è oggi, più che mai, da intendere anche relativa al ruolo di lavoratore dello stesso individuo e, quindi, di fautore di tali beni e servizi. In particolare, tra gli shock trasformativi che stanno impattando sul presente, la pandemia da Covid-19 sta avendo ripercussioni sul mondo del lavoro che vanno ben oltre gli sforzi di determinati settori più fortemente legati alla crisi sanitaria in senso stretto. Vi è, quindi, in atto una rivoluzione dell’organizzazione del lavoro, che se è vero che per la maggior parte è demandata ai C-level delle aziende, è vero pure che in molti hanno deciso di rischiare e affrontare in prima persona questa crescente insoddisfazione, intraprendendo nuovi percorsi lavorativi più o meno autonomi, come l’ondata delle grandi dimissioni, iniziata negli USA e oggi rintracciabile in molti altri paesi, può dimostrare.

A tal proposito, nel libro edito da Deloitte Private dal titolo L’evoluzione del concetto di benessere individuale e aziendale. Un modello innovativo di misurazione” a cura di Marco Caiffa, Elena Croci, Ernesto Lanzillo e Marco Vulpiani (McGraw Hill, 2021), si rifletta su come oggi “viviamo nell’era di un accesso illimitato a servizi e consumi che vanno oltre il mero bisogno […]”, il tutto 24 ore su 24, “in nome di una modernità democratica, globale, per tutti. Accesso, consenso, benessere, tutto personalizzato per dire cosa e dove consumiamo e dunque chi siamo. Siamo di fronte a scenari nuovi, complessi, che sicuramente denotano un nuovo bisogno di affermazione e di conseguenza una grande possibile frustrazione”.

Di certo, analizzare l’attuale momento storico non è facile proprio perché manca la distanza temporale che permette razionalità e soprattutto un’ampia prospettiva per individuare e definire i legami di causa-effetto, andando oltre la generica disamina di “situazione complessa non lineare”.  Il sopracitato libro, tuttavia, riassume cinque similitudini di tendenza, intendendo con quest’espressione come tra le molteplicità di direzioni possibili e ritracciabili ve ne siano alcune con dati e caratteristiche simili. Vengono elencate e presentate come segue:

  • la ricerca di un appagamento individuale che si estende su più piani (piano fisico, estetico, intellettuale);
  • in un mondo globalizzato, la voglia di distinguersi, di essere differente, di poter dire la propria opinione pur essendo un solo singolo essere umano;
  • la ricerca di ideali per cui valga la pena mettersi in gioco (ultimamente il pianeta Terra pare essere un valido argomento);
  • la grande voglia di fare esperienza al di là di una sicurezza del quotidiano;
  • l’importanza della divulgazione delle proprie esperienze sui social.

Da questi punti si può trovare un fil rouge per cui “la relazione di fiducia a tempo indeterminato che ha contraddistinto due, se non tre generazioni, stia venendo meno. Per le cinque affermazioni sopra elencate, l’individuo contemporaneo non cerca più un luogo, un’azienda, un’organizzazione a cui giurare fedeltà, un’organizzazione a cui giurare fedeltà per i prossimi trent’anni”. È chiaro, quindi, che una situazione compromessa come quella pandemica (cigno nero per definizione), in ambito lavorativo in generale, ed aziendale in particolare, abbia mostrato che le strategie di lavoro incentrate sulla persona non sono solo un “nice to have” in linea con le mode del momento, ma un vero e proprio “must have”. Le aziende che concepiranno il mondo human capital in modo olistico e sapranno costruire processi decisionali a partire dal well-being delle proprie persone, saranno quelle che riusciranno a prosperare nel futuro. È interessante, quindi, approfondendo la figura del lavoratore alla ricerca di un benessere lavorativo che non è più sovrapponibile a quello di qualche anno fa, introdurre il concetto di "Iperidentità" elaborato da Elena Croci in diverse pubblicazioni scientifiche e libri, non ultimo in “Iperidentità. Tra reale e virtuale: i gesti e il nuovo marketing della contemporaneità” (Franco Angeli, 2021). Iperidentità è un neologismo, benché se scritto in maniera staccata  - “iper” “identità” -  sia un’espressione presente nella pedagogia,  facente riferimento alla fase del bambino nella quale inizia a camminare ed essere indipendente, essendo tuttavia parimenti dipendente da una sua innata richiesta di attenzione, approvazione e consenso da parte di chi se ne prende cura. Come neologismo, invece, iperidentità racchiude in sé, come si legge nelle pagine di Elena Croci, la ricerca di “altro” (virtuale o reale) che porti a un’ulteriore affermazione della propria identità (del sé) iper-estesa e si attesta nell’ambito della sociologia contemporanea. Ciò ha a che fare anche con la tecnologia: oggi l’individuo esprime sé stesso, la sua pulsione egocentrica e il suo intimo bisogno di consenso anche attraverso una possibile iper-estensione del sé determinata dalle varie piattaforme social di internet. Ciò è, ad esempio, permesso grazie a piattaforme social che abilitano ad un tipo di esistenza in un mondo, o, nelle parole di Elena Croci, in un ipermondo che non ha un luogo fisico, ma si trova in cloud: un cyber spazio senza confini di alcun genere, dove si è incessantemente connessi, che tenendo conto di pro e contro, apre a nuove dinamiche che impattano anche sul benessere generale del lavoratore.

Quindi, se l’iperidentità è parte delle caratteristiche dei lavoratori di oggi, vi è la necessità di tenerne conto, lato business, per quel che riguarda l’organizzazione del lavoro e alcune scelte societari ed aziendali che non dovrebbero puntare unicamente sul reddito quale politica di benessere, non più percepita come sola fonte di well-being.

A questo proposito nella sopraccitata pubblicazione di Deloitte Private, dopo una mappatura dei principali indicatori per la misurazione del benessere (dal Better  Life Index dell’OCSE al BESBenessere Equo e Sostenibile dell’ISTAT) e alla stessa proposta di un proprio modello (INWI – Individual Well Being Index) basato su un insieme di nuovi indicatori in grado di spiegare la variabilità della soddisfazione della vita, vengono tratte delle conclusioni relative al benessere aziendale in questo momento storico all’insegna di una rinnovata attenzione alla persona. Ad esempio, puntare sulla creazione di infrastrutture d’aggregazione (dal punto di ristoro all’asilo) aumenta benessere generale, e non solo come percepito, ma in maniera fattuale, sollevando il lavoratore da determinate problematiche e con spill-over positivi sul tempo libero e sulla cultura della persona. Come si legge nella pubblicazione precedentemente menzionata, “l’individuo percepisce un proprio benessere se l’azienda assume un comportamento di attenzione personale verso quest’ultimo; l’iperidentità porta il lavoratore al desiderio di una relazione ego-riferita, nel bene e nel male; se percepisce che la sua opinione, e la sua presenza hanno un peso per l’azienda, la resa e l’impegno lavorativo saranno maggiori, se al contrario si sente “un numero”, la propria soddisfazione per il lavoro e il derivante benessere saranno negativi”.

Nella pratica il modello olivettiano, aggiornato alle novità del digitale, è ancora la scelta vincente, ricreando una “relazione aziendale” empatica, di una collettività, di una famiglia che si prende cura dell’insoddisfazione percepita del cittadino-lavoratore al tempo della globalizzazione. Da qui una proposta da prendere in considerazione: l’istituzione di un team specializzato in “benessere aziendale” (da adeguare su scala più piccola per le PMI) che vada a lavorare su tutto ciò che si riferisce a una percezione di cura del singolo lavoratore e a una potenziamento della capacità d’interazione tra i diversi stakeholder.  

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