Come si cambia … per valutare

Valutare un centro commerciale sarà un mestiere sempre più complesso perché, fra l’altro, l’eCommerce non è una componente oggi ben distinguibile e soprattutto definibile a livello contrattuale (da Mark Upn. 269)

Fra i temi che appassionano e dividono di più gli addetti ai lavori nel settore del retail e dell’immobiliare commerciale, quelli dell’eCommerce (e del suo impatto sulla contrattualistica e la negoziazione landlord-tenant), del travel retailing e delle forme di commercio flessibile, della validità universale attribuita con troppo fideismo ai criteri tradizionali di classificazione (prime, superprime, secondary ecc.), sono fra gli argomenti più visitati e “haunting” nelle tavole rotonde. Ne parliamo con Savino Natalicchio che segue da anni la valutazione dei centri commerciali.

Come cambierà la professione del valutatore nei prossimi anni?

Nei prossimi dieci anni i criteri per la valutazione di un centro commerciale e quindi la professione stessa del valutatore si evolveranno in maniera radicale. Già adesso l’eCommerce e tutte le implicazioni del digitale applicate al retail stanno modificando i punti di vista in materia di parametri aggiuntivi e di implicazioni sul rapporto contrattuale e negoziale tra proprietà e tenant.

La “digital disruption” romperà gli schemi anche in questo settore?

È uno dei fenomeni più impattanti, soprattutto sui centri commerciali. La digital disruption non cambia soltanto gli approcci dei consumatori e il loro rapporto con il processo di acquisto, ma condiziona la contrattualistica tra retailer e proprietà. Non mi riferisco tanto all’eCommerce in se stesso, come fenomeno e meccanismo di acquisto, ma alla quota di fatturato che esso genera e il modo in cui va imputata questa quota. I tenant con maggior potere negoziale, la cui presenza nei centri commerciali è qualificante, dettano le regole, e spesso lavorano con forte componente di variabile: se questa componente di variabile (“sales based rent”) generata dall’online è sempre più rilevante e aleatoria, e non è tracciabile, ho una quota di fatturato che mi sfugge. Questo è il vero tema all’ordine del giorno. Cambia tutti i meccanismi di verifica.

Prima della digital disruption c’era già comunque il problema della sostenibilità degli effort rate ...

Sono due temi urgenti, ma non coincidenti. Fino al manifestarsi della crisi il problema del canone non si poneva, nella sua articolazione di base. Dal 2009 in poi abbiamo visto esplodere il tema delle insolvenze, con la sempre maggiore attenzione alla sostenibilità dei canoni (effort rate), fortemente connessa anche alla redditività nel tempo. L’effort rate varia da settore a settore: per esempio, nell’abbigliamento se supera il 15% diventa problematico. Ma con il mutato scenario generato dall’eCommerce, quando un retailer comincia ad avere una componente di fatturato che sfugge alla verifica, la proprietà avrà un dato che non riflette pienamente l’andamento dei ricavi.

Riflettevo con alcuni avvocati specializzati su questi temi: esiste un modo contrattualistico per imbrigliare queste quote non definibili? No, al momento non c’è, le quote eCommerce sono molto difficili da definire con certezze contrattuali.

Quindi, che cosa vedi in prospettiva?

In un futuro non molto lontano, si potrebbe assistere a un ritorno ai minimi garantiti anche a tutela delle proprietà. Questa è già una tendenza in parte avviata. Inoltre, conterà sempre di più il footfall, cioè l’attrattività del centro commerciale in termini di passaggi e conversion rate, parametri che saranno sempre più definibili nel dettaglio attraverso i big data e i relativi sistemi di calcolo. Potrebbero quindi esserci minimi garantiti legati non più al variabile, ma ai visitatori: per esempio, un centro commerciale/galleria garantisce 5 milioni di visitatori all’anno; se supera questa soglia minima di footfall i conduttori potrebbero riconoscere quote aggiuntive di canone; in mercati evoluti si cominciano a fare questi ragionamenti.

Che ruolo gioca il commercio flessibile?

Quello che vedo è una tendenza ad andare verso forme miste come nel travel retailing, caratterizzate da intensi flussi non legati alla destinazione commerciale: in questi canali le componenti di ricavo provenienti da spazi pubblicitari, legate quindi ai media advertisting, non sono più voci squisitamente immobiliari: su un centro da 15 milioni di transiti all’anno questa quota di fatturato aggiuntivo potrebbe diventare interessante anche sui ricavi e sul valore dell’asset: con effetti sul piano valutativo perché si esce dall’immobiliare puro.

Ha ancora senso distinguere centri prime, secondary, ecc.?

Gli Ivs, gli standard internazionali di valutazione, promossi per esempio da Rics, rimangono fondamentali, hanno una stretta connessione con gli indicatori di bilancio e con la necessità di creare un linguaggio comune e condiviso. Ma è anche importante riconoscere che esiste un mercato ampiamente industrializzato con specificità che non possono essere schiacciate da un approccio generalista.

Penso che oggi si tenda a fornire una rappresentazione superata del mercato immobiliare retail, un approccio che risente della tipica visione dell’investitore estero orientato alla tipica asset class nelle commercial properties, e cioè gli uffici. Ma il mercato dei centri commerciali non è quello degli uffici, polarizzato a Milano e Roma. Per me un centro commerciale cosiddetto secondario in una città di provincia ricca, popolosa, può essere classificato come prime. La transazione più importante di quest’anno è stata quella delle Befane con 4,9% di cap rate, un rendimento da superprime; eppure Le Befane non è un centro di grandi dimensioni, non è in una delle principali aree metropolitane; è corretto, allora, parlare di dominanza in un bacino d’utenza. Per me questo è il fattore chiave che definisce un prodotto più sicuro.

Le grandi aree metropolitane sono davvero esenti da rischi?

Ci sono aree, e bacini all’interno di esse, più rischiose di altre, dal punto di vista della promozione e dell’investimento, anche se più interessanti: per esempio, fare oggi previsioni su nuovi centri commerciali in aree già densamente popolate e well-retailed come Cinisello Balsamo, Sesto San Giovanni, Rho-Pero (Cascina Merlata), ma anche Carugate (ampliamento di Carosello), Segrate (Westfield), o Bollate, è cosa molto complessa. Forse per un investitore è meglio un centro commerciale dominante a Perugia, che gli garantisce di non avere rischi verso la concorrenza.

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