Coworking futuro business per l’immobiliare

Secondo Cushman&Wakefield, i grandi investitori allocano le proprie risorse negli uffici flessibili. In Italia ci sono 660 unità di coworking (da Mark Up n. 285)

Parliamo di coworking per due ragioni: la prima, è che i centri commerciali si stanno accorgendo di questo fenomeno; secondo, perché è sempre più evidente, anche per gli operatori di real estate, che il coworking può essere (anche se non è proprio facilissimo) un modo redditizio di trattare gli immobili commerciali, e proprio per questo aumenta il potere contrattuale di chi questi spazi li prende in leasing: Cushman&Wakefield precisa che i grandi investitori sono oggi propensi ad allocare tra il 15% e il 30% del proprio patrimonio immobiliare in coworking.

Nel 2018 hanno aperto oltre 2.000 nuovi spazi di coworking, metà dei quali in Usa. La città più dinamica è però Londra con un nuovo coworking inaugurato ogni 5 giorni contro i 7,5 giorni della media newyorkese. Secondo le stime di Coworking Resources, nel 2020 il numero di spazi supererà i 20.000 (dai 16.000 del 2018) per sfiorare la soglia dei 26.000 nel 2022 e ipotizzando tassi di crescita paragonabili a quelli di oggi, +42% anno su anno.

Gli uffici dedicati ai lavoratori della flessibilità (smart worker) occupano globalmente oltre 11 milioni di metri quadri. Secondo le stime di Cushman & Wakefield (aprile 2019), il (notevole) potenziale di sviluppo si deve al fatto che il modello si sta dimostrando sempre più capace di generare profitti.

Oltre il 40% dei coworking è profittevole. Il dato proviene da una ricerca di Copernico, la rete di luoghi di lavoro, uffici flessibili e servizi di smart working e quindi da una società non proprio estranea al business del coworking. Tuttavia, Copernico afferma di aver confrontato le maggiori fonti sul settore: nel 2018 il 42% di tutti gli spazi censiti era profittevole (contro il 40% di un anno prima), e dal 2013 la crescita costante dimostrerebbe che il business potrebbe diventare sempre più redditizio. I profitti derivanti dagli uffici privati sono aumentati del 9% dal 2017 e ammontano al 27% del totale del flusso di reddito del coworking. Sono diminuiti del 3% i costi di affitto per gli operatori, che oggi pesano sulle spese totali per il 37%. La ragione potrebbe essere nella scelta delle location, o nel fatto che gli operatori tendono ad acquisire gli asset o riescono a ottenere condizioni di leasing più vantaggiose.

Secondo l’analisi indipendente Global Coworking Survey, nel 2013 a livello globale gli spazi cowo profittevoli erano il 32%, saliti al 42% nel 2018, mentre quelli in perdita sono scesi dal 36% al 26%.

Il dato sulla redditività degli spazi italiani, invece, vede solo il 30% dei coworking in attivo nel 2017. La ragione sta nel modello di business adottato: anche se l’80% di coworking ha forma giuridica di società di capitali, solo un terzo nasce con l’obiettivo di fare business e dunque come attività principale da cui trarre un utile. La maggioranza dei cowo* italiani viene avviata con motivazioni diverse e spesso in maniera collaterale rispetto all’attività principale: attraverso il coworking, si cercano nuovi clienti o visibilità (44% dei coworking) o semplicemente per ridurre le spese della propria struttura aziendale (motivazione, questa, che fa capo al 20% degli spazi censiti).

*usiamo qui e in seguito il termine "cowo" come abbreviazione di coworking. Cowo è anche un marchio verbale registrato.

Secondo l’ultimo aggiornamento del report European Coworking Hotspot Index (aprile 2019), alcuni fattori economici e costruttivi, altri demografici e sociali, favoriscono la domanda di spazi flessibili in determinate città. Nella top ten europea spiccano Londra e Parigi, ma anche Stoccolma e Dublino. Milano e Roma che ospitano rispettivamente l’1,1% e lo 0,4% del totale dei cowo censiti in Europa, crescono rapidamente (basti pensare che nell’ultimo biennio Milano è passata dal 2% al 10% del take-up totale italiano) e dunque sono, secondo Cushman&Wakefield, tra i più promettenti mercati in Europa per dimensioni, canoni di locazione, durata dei contratti ed elevata presenza di società che operano nel settore delle tecnologie dell’informazione e delle comunicazioni.

Italian Coworking ricorda che nel 2018, a quasi un decennio dall’arrivo del primo spazio di questo tipo in Italia, i cowo erano già 550, uno ogni 108.000 abitanti, distribuiti su tutto il territorio nazionale. Una crescita costante, tanto che a inizio 2019 il numero era già salito oltre le 660 unità.

Solo il 32% ha sede in centri urbani con più di 200.000 abitanti, mentre non più del 37% in una città metropolitana: un coworking su 4 è invece fuori dalle aree metropolitane, in agglomerati con meno di 50.000 abitanti.

Piccolo non è bello. Nel mondo, in media, si raggiunge il break-even a 13 mesi dall’apertura. Per l’Italia invece, secondo Italian Coworking, il break-even point richiede circa tre anni. Questo scarto è strettamente legato all’investimento medio dei coworking italiani, che si aggira intorno ai 50.000 euro, mentre poco più del 13% investe oltre 100.000 euro. Ma chi investe di più sembra avere più chance di redditività e di raggiungere il break-even in un tempo più breve (circa 2 anni). Anche l’indice di equipaggiamento degli spazi, in particolare le dotazioni di sicurezza e tecnologiche, confermano che investire di più paga. Nel mondo, a fare la differenza tra spazi profittevoli e quelli che non lo sono, è principalmente la quota di occupazione in correlazione con la disponibilità di spazi: lo studio globale indica che 3 su 4 dei coworking con oltre 200 membri sono in break-even, e maggiore è la dimensione, maggiori sono i profitti (a patto di essere alla massima capacità). Inoltre, la dimensione della città che ospita lo spazio è correlata positivamente con la generazione di profitto: tuttavia, nelle città di oltre un milione di abitanti dove hanno sede più di 50 cowo, la profittabilità crolla di nuovo.

A far aumentare i profitti e la sostenibilità finanziaria sono infine soprattutto gli uffici privati, mentre offrire troppe meeting room è dannoso per i conti. Così solo un quarto dei cowo che non offrono uffici privati sono in profitto, contro la metà di quelli che offrono questo servizio: se gli spazi comuni occupano oltre un quarto dello spazio o da essi deriva oltre un quarto dei profitti, il business inizia a diventare rischioso oltre la media.

Anche per quanto riguarda l’Italia, piccolo non è bello. Sebbene la soglia di membri per il raggiungimento della redditività resti sorprendentemente bassa (meno di 20), tra gli spazi di grandi dimensioni la quota dei coworking in perdita scende e aumenta sia il numero dei più redditizi uffici privati (che passano in media da 2 a oltre 10), sia le opportunità per l’offerta di sale e altre attività/servizi. E, ovviamente, a proposito di dimensione, i coworking nelle città oltre i 100.000 abitanti e, in particolare, quelli in grossi agglomerati oltre i 500.000 abitanti del Nord hanno una migliore performance.

Anche se, anche nelle città più piccole e addirittura piccolissime, non perdono più che nei grossi centri.

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