Dissonanza cognitiva: una leva di fidelizzazione

Acquistare d’impulso e poi pentirsi. Non sempre è un male né per i consumatori, né per le aziende (Da Mark Up 294 - ottobre 2020)

A chi non è mai capitato di comprare qualcosa di non preventivato, spinti più dall’istinto che dalla ragione? L’acquisto d’impulso è un tema molto noto nel marketing, tanto noto che se ne parla da decenni e le aziende cercano di incoraggiarlo, essendo un buon bacino di ricavi: solo per citare qualche dato, si stima che nei punti di vendita il 60% degli acquisti non sia pianificato (Dialogica, 2017) e che negli Usa si spendano circa 5.400 $ all’anno per persona in acquisti di questo tipo (Slickdeals, 2018). L’acquisto d’impulso è un comportamento quasi fisiologicamente connesso alla natura umana. A cambiare sono i tratti di personalità che lo scatenano: esistono infatti soggetti più predisposti e altri meno. Di certo, però, nessuno può dirsi immune da questa pratica. Il punto di vendita, fisico o virtuale, può incidere sulla spensieratezza della nostra scelta. Basti pensare ai flagship store, congegnati per creare una immersione dei consumatori nell’esperienza di marca, oppure a una piattaforma di e-shopping particolarmente stimolante, magari consultata attraverso lo smartphone, che spinge al click facile sul carrello. Tuttavia, non conta soltanto il contesto. Certi prodotti, di solito quelli di modico valore, si prestano meglio a farci cadere nella trappola dell’impulsività. In questo caso, è il modesto coinvolgimento nei confronti dell’acquisto a dettare la velocità della decisione.
 Sia chiaro, il concetto di modico valore è relativo, essendo collegato alla disponibilità economica di ciascuno. Ma anche prodotti che all’apparenza sembrano richiedere maggiore riflessione, non fosse altro per il loro prezzo più elevato, possono rientrare in questa categoria, e in tal caso il motore della scelta va ricercato in componenti simboliche (come l’immagine di un brand) ed edonistiche (il piacere che un oggetto procura).

Dopo un acquisto d’impulso, può succedere che ci si penta. Quello che si è comprato non è esattamente come si pensava e non lo si ritiene meritevole dei soldi spesi. Allora, in preda a questa ansia da fallimento, si cercano ragioni -più o meno valide, più o meno logiche- per giustificare la scelta fatta. Gli studiosi del comportamento dei consumatori definiscono questa operazione di auto- convincimento “dissonanza cognitiva”. Allora è legittimo domandarsi se pentirsi di un acquisto sia un problema. Partiamo dalle persone: la dissonanza cognitiva tende ad auto-neutralizzarsi, nel senso che vengono messi in atto dei meccanismi compensativi dell’errore compiuto. Per esempio, si giustifica la scelta diminuendo l’importanza delle caratteristiche non possedute dal prodotto (o servizio), amplificando quelle positive. Oppure, si sposta l’attenzione verso motivazioni d’acquisto diverse da quelle reali, sostenendo così la vantaggiosità della decisione: in quel momento non erano disponibili prodotti altrettanto convenienti, l’urgenza dell’acquisto non ha permesso una accurata valutazione delle alternative ecc. Lo scopo è quello di assolversi e poi dimenticare. In proposito, la dissonanza cognitiva paradossalmente costituisce un aiuto, visto che rimuove le cause della frustrazione e ci permette di rimanere ancorati ai consueti schemi di pensiero, illudendoci di avere ragione. Fin qui dunque, pentirsi non è un gran male, se non per il fatto che la mancanza di memoria ci porterà probabilmente a comportarci in futuro nell’identico modo del passato, magari ricadendo nello stesso errore. Ma almeno ci saremo risparmiati la sgradevole sensazione di ammettere a noi stessi di avere sbagliato.

Se però viene osservata da un altro punto di vista, la dissonanza cognitiva potrebbe anche diventare un’opportunità. In questo caso è necessario un piccolo sforzo: provando a uscire dalla nostra zona di comfort, come in altre situazioni della vita, l’errore potrebbe diventare una forma di apprendimento. Ci insegnerebbe ad essere più accorti in futuro e modificando i nostri atteggiamenti ci eviterebbe sorprese spiacevoli. Se proprio l’errore sarà inevitabile, almeno saremo capaci di sviluppare meccanismi di scelta più efficaci. Oltre che per i consumatori, il senso di frustrazione che la dissonanza cognitiva produce è un punto di interesse anche per gli operatori di marketing. Ci si chiede infatti come neutralizzarla, o comunque ridurla, perché in caso positivo alla situazione di disagio si sostituisce quella del sollievo, che tende ad essere più facilmente ricordata. Per contrastare la dissonanza cognitiva, le aziende tendono ad agire su due fronti: il primo è quello che precede l’acquisto; il secondo riguarda invece il post-acquisto. In fase preventiva, appropriate argomentazioni di vendita possono aumentare la conoscenza dei consumatori e renderli più consapevoli della scelta. Per appropriatezza non va intesa la persuasione, quanto piuttosto il proporre informazioni affidabili, chiare e complete. Vanno insomma bandite le brutte sorprese e aumentato il supporto decisionale. Dopo l’acquisto, è invece fondamentale l’assistenza clienti: in questo caso non bastano solo parole di rassicurazione; occorre capacità di soluzione, per esempio nel facilitare le eventuali procedure di reso. In definitiva, la dissonanza cognitiva,
se gestita attivamente dai retailer e dai produttori può trasformarsi in una leva di fidelizzazione dei consumatori. I quali, anche in caso di acquisti d’impulso, sapranno comunque di poter contare su un interlocutore che li aiuterà nel rimuovere l’insoddisfazione di un eventuale pentimento.

(*) Professore associato di marketing, Università Roma Tre, Dipartimento di Economia Aziendale

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