La fiducia come leva per le decisioni di acquisto

Nella società post pandemica la fiducia diventa leva di crescita e motore di cambiamento sociale. Con un imperativo: parlare al noi, non più al singolo


Cambiamenti, conferme, accelerazione di processi e definizione di nuovi trend. Questo, in sostanza, lo scenario definito dall’emergenza sanitaria. La mentalità, che oggi convive con una pandemia che ha ricadute profonde sul tessuto sociale, ruota intorno a un fulcro determinante quanto delicato, quello della fiducia, intesa come sentimento collettivo, più forte di quello individuale.
Fiducia in una società frammentata dalla pandemia significa pensare al noi prima ancora che a sé stessi e non basta più amare un brand, apprezzare l’impegno di un leader o di un partito politico. Passato l’innamoramento iniziale, le persone chiedono informazioni chiare, impegno continuativo, comunione d’intenti e valori insieme all’attenzione verso le nuove necessità e le diseguaglianze che si sono venute a creare. Chiedono azioni, prima ancora che parole. Chiedono, insomma, di basare la propria fiducia su pilastri forti e condivisi.

Più attenzione alle imprese

Come emerge dal Trust Barometer Edelman 2021, la fiducia è diventata un aspetto centrale nella vita quotidiana per il 43% delle persone coinvolte nel rapporto. Lo scenario individuato vede l’Italia come più ottimista rispetto agli altri Paesi: con un trust index complessivo del 66% (nel 2006 era del 47%) registra una maggiore fiducia verso Governo (+10 punti) e business (+2 punti). A uscire vittorioso è proprio il mondo delle imprese che rileva la maggior fiducia su scala sia mondiale (61%) che nazionale (59%), superando media e organizzazioni non governative e affermandosi come unica realtà etica e competente.
Non è dunque un caso che, richiamando la nuova logica di prossimità, il ceo entri nel cerchio delle persone di cui ci si fida di più e venga ritenuta come l’istituzione più affidabile (77%) e la fonte di informazione più credibile (59%). Ed è proprio ai ceo, dove i valori personali sono ritenuti più importanti della formazione e della storia professionale, che più della metà degli italiani chiede di farsi avanti per risolvere problemi sociali, guidare il cambiamento ed essere responsabili sia verso consigli di amministrazione e stakeholder che nei confronti dell’opinione pubblica. Il tutto con un imperativo: prima si agisce e poi si parla. E quando lo fa, il business deve farsi “guardiano dell’informazione” promuovendo una comunicazione corretta, che argini la formazione di echo chamber e la proliferazione di notizie non controllate. Quella dell’informazione, ai tempi dell’infodemia è la più grande opportunità di crescita per le aziende, da condividere con i propri dipendenti che diventano, di fatto, nuovi stakeholder. Sono loro, infatti, a indicare la strada per un cambiamento aziendale che viri sempre più verso un impegno sociale. Un ruolo, quello di stakeholder, che valorizza le convinzioni personali e vale più degli zeri in busta paga, come si legge nel report Edelman The Belief-Driven Employee. I dipendenti chiedono di poter essere parte del purpose aziendale attraverso un empowerment personale che abbia, però, ricadute positive sulla società. Se questo non accade, o se la dirigenza non prende posizione rispetto a un tema di rilevanza sociale, la risposta è l’abbandono del posto di lavoro, decisione, questa, che riguarda un dipendente su tre.
La stessa filosofia si ritrova nel 40% dei consumatori che hanno smesso di acquistare i brand che amavano per una mancanza di fiducia nei confronti della società proprietaria o perché questa non si è espressa su urgenze sociali. Dipendenti e consumatori sullo stesso tavolo per la creazione di un “mondo del noi” con il 71% dei consumatori e il 58% dei dipendenti italiani, convinto di poter contribuire a cambiamenti aziendali e di marca.

Ascolto e coinvolgimento

In questa logica, il consumatore non cerca più brand che lo facciano crescere o lo soddisfino come individuo, ma che contribuiscano a un miglioramento diffuso della società, sia in termini ambientali che di tutela del lavoro, oltre che nel sostegno di buone cause, nella collaborazione con realtà locali e nella diffusione delle hard truth, a conferma della necessità di una maggiore igiene nella comunicazione, su tutti i livelli. Qui lo storytelling del “che cosa l’azienda fa”, prima ancora di “che cosa l’azienda vende” fa la differenza e risponde all’aspettativa di quell’86% dei consumatori che vorrebbe che i brand prendessero posizione al di là dei loro prodotti e business, esplorando, anche, nuovi campi d’azione dove, attraverso l’ascolto, coinvolgano chi poi acquista i prodotti.
La fiducia, insomma, non è mai stata così importante nelle decisioni d’acquisto: conta più dell’amore nei confronti del brand, dei servizi di customer service e della reputation, come rileva la survey di Edelman, che registra più di 6 consumatori su 10 prendere decisioni d’acquisto mossi dalle proprie convinzioni e dal peso della fiducia che supera qualità e valore di un bene, mentre il 78% cerca riscontro in cambiamenti reali e con un impatto misurabile nella società. Fiducia come leva di crescita, dunque, che fa alimentare il passaparola (61%), fidelizza (43%), porta all’acquisto (57%) e a un ingaggio duraturo (31%), dove a guidare sono i consumatori che indicano ai brand i contesti d’azione e dove cultura, purpose e società sono in dialogo costante per la creazione di una nuova brand equity.
La sfida è aperta e se per le aziende è il momento di ripensare la strategia rendendo i dipendenti sempre più stakeholder e parte della trasformazione, per i brand è l’occasione per esplorare nuovi terreni di gioco, essere motori di cambiamento culturale, trasmettere e acquisire fiducia sia dal prodotto che dal corporate brand, ricordando che le persone, oggi più che mai, aspettano prima i fatti delle promesse.

LASCIA UN COMMENTO

Inserisci il tuo commento
Inserisci il tuo nome