Editoriale: dal desiderio di possedere a quello di fruire, la nuova era del consumerismo

Cristina Lazzati, direttore responsabile di Mark Up e Gdoweek
Cristina Lazzati, direttore responsabile di Mark Up e Gdoweek
Cristina Lazzati, direttore responsabile di Mark Up e Gdoweek

Il consumismo, così come l’abbiamo conosciuto, sembra ormai condannato ad una fine lenta ma inesorabile, sostituito, da un lato da una maggiore morigeratezza, dall’altra in evoluzione verso un modello di sharing; sembrerebbe, dunque, che si stia passando dal desiderio di possedere a quello di fruire (anche perché è oggettivamente meno dispendioso condividere che acquistare). Non dimentichiamo quanto, negli anni, il “consumismo” sia stato condannato dai pensatori: generatore di sprechi, di pattume, espressione di un mondo fatto di cose e non di sentimenti, accanto al consumismo anche il termine consumatore, sembra diventare obsoleto e riduttivo; a questo, sempre di più, si preferisce una versione più ampia: persona, cittadino. Storicamente lo sviluppo dei consumi ha generato il consumerismo, non è un caso che la prima associazione italiana di questo genere, l’Unione Nazionale Consumatori sia nata, grazie all’iniziativa di Vincenzo Dona, ufficialmente nel 1955 in pieno miracolo economico. Con l’evolversi dell’approccio all’acquisto e al consumo, il rapporto tra consumerismo e aziende sta cambiando e sempre di più (noi lo auspichiamo) le parti in campo tentano una strada che non è quella dello scontro ma, bensì, della prevenzione, con un sistema collaborativo. Siamo ancora agli inizi e la strada è lunga, permeata da diffidenze e da errori, i “felloni” ci sono sempre stati e sempre ci saranno, ma è una strada “giusta”, in cui le associazioni consumeristiche possono affiancare le persone nelle scelte, fornendo loro strumenti adeguati di decisione, permettendogli di fare scelte informate e apprezzare appieno quanto offerto dal mercato in base alle proprie esigenze di spesa e gusto. E fin qui, tutto bene ma non basta. Nel panorama italiano, si osservano due distonie rispetto al mondo anglosassone: una è l’elevato numero di associazioni presenti, con conseguente polverizzazione delle attività di pressione socio-economica. L’altra è la mancanza dell’arma più importante: la class action o, se preferiamo, l’azione di classe, la cui delibera è ancora in attesa, persa nei meandri della politica. È la solita storia (italiana): si comprende la direzione del cambiamento, ma prevale la tendenza a non voler scontentare nessuno, il risultato è un immobilismo quasi congenito. Inoltre, le associazioni (e non solo quelle consumeristiche) hanno anche, e sempre di più, un altro compito, che non possono svolgere da sole, che è quello di accompagnare questo mondo in evoluzione verso lidi più adeguati alle esigenze di oggi: risparmio energetico, risparmio di materie prime, maggiore valore alla qualità, alla sostenibilità. In questo è necessario che guardino alla formazione, all’educazione del cittadino, ma anche a quella delle imprese, come un compito imprescindibile, diventando così facilitatori di un percorso di crescita nazionale e sovranazionale, che le porti a continuare sì a combattere per i diritti dei loro rappresentati ma che alle battaglie sappia affiancare la costruzione di un nuovo modello di consumo, possibilmente migliore di quello che abbiamo avuto finora.

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