Editoriale – La flessibilità e il lavoro

Cristina Lazzati, direttore responsabile di Mark Up e Gdoweek

Lavoro, lavoro e ancora lavoro. Comunque ci si muova, si incappa nel lavoro e nella sua riforma. Il lavoro oggi è da riformare, ma ancora di più è da riformare un intero modo di pensare. Lavoratori, sindacati, aziende, istituzioni, servizi, tutti devono cambiare approccio su quanto aspettarsi da un contratto di lavoro. E dopo “lavoro” a stretto giro arriva un altro termine: “flessibilità”. Richiesta a gran voce dalle aziende, ma guardata con sospetto dai lavoratori perché troppo spesso sinonimo di licenziamento, cassa integrazione e di perdita, in un modo o nell’altro, dei benefici che arrivavano da un contratto di lavoro “subordinato a tempo indeterminato” (leggi: finché pensione non ci separi), dicitura che, guarda caso, ci portava e ci porta l’accesso a mutui e a crediti al consumo, che significano casa di proprietà, macchina nuova, l’apparecchio per i denti e così via...

Ed è proprio questa catena che si deve spezzare, ma a fronte di cosa? Vediamo che cosa succede in un Paese dove il costo del lavoro è più basso e la flessibilità è portata a livelli massimi: gli Stati Uniti. In un recente articolo del New York Times, citato da Harvard Business Review, si raccontava in qualche battuta la storia di una commessa di Starbucks che era passata dal ricevere una pianificazione oraria settimanale, a una quotidiana, con relativo aumento dello stress e incapacità di organizzare qualsiasi altra cosa della sua vita (nella fattispecie la giovane non era riuscita né a completare gli studi universitari e neppure a fare la patente, ndr), le sue performance lavorative si erano, di conseguenza, abbassate. Un problema solo per i livelli più bassi del retail? Niente affatto!

Lo stesso discorso vale anche per i manager, che avevano plaudito i vantaggi di una maggiore flessibilità resa possibile dagli strumenti mobili e che oggi vedono abolito qualsiasi limite di tempo e di spazio, privati di una vita personale e completamente disassati da quella sociale. Infatti, siamo oltre la flessibilità, oggi, si parla di mancanza di predicibilità: i lavoratori lamentano di non sapere quante ore del proprio tempo l’azienda chiederà loro di investire, in quali giorni sarà richiesta la loro presenza. Insomma, l’altra faccia della flessibilità, del lavoro semiautonomo, dei mini jobs è lo stress da “sempre a disposizione”. Uno stress che, avvertono i ricercatori di BCG, che hanno condotto lo studio pubblicato dalla Harvard Business Review, dà poi luogo a minore rendimento delle ore effettivamente lavorate. Allora fermiamo questa corsa alla flessibilità?

Assolutamente no, ma impariamo da chi ci è già passato il rispetto del lavoratore, il rispetto dei suoi spazi e viceversa, anche il lavoratore (a tutti i livelli) dovrà riappropriarsi di etica e dovere, oltre che di diritto.

Entriamo in una nuova epoca, quella della collaborazione dove coercizione e menefreghismo non devono più trovare spazio, anche grazie ad una maggiore flessibilità.

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