Fake news: anche la pubblicità fa la sua parte

Gli opinionisti di Mark Up (da Mark Up n. 272)

Da dove arrivano le fake news? Chi le produce, chi le diffonde? Ma soprattutto chi ci guadagna? Sul tema delle notizie false che popolano il nostro quotidiano si continua a discutere e non potrebbe essere altrimenti considerati i danni sociali di questo diffuso fenomeno. L’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (Agcom) ha recentemente istituito un tavolo di confronto dove è chiamata a dare un contributo anche l’Unione Nazionale Consumatori: del resto il fake inquina la libertà di scelta del consumatore e ne offusca la razionalità alimentando false credenze. Detto che nella diffusione delle fake news non va sottovalutato il ruolo attivo degli stessi utenti della rete (che troppo spesso rilanciano notizie false limitandosi a leggere il titolo di un articolo senza approfondirne il contenuto), credo che anche la pubblicità abbia un ruolo. E non mi riferisco solo a quella che inganna il consumatore, ma più in generale a quei messaggi che contribuiscono a polarizzare l’opinione pubblica, dando luogo al terreno ideale per il fiorire delle notizie false. Quali le colpe della comunicazione pubblicitaria? Molto semplice, basta citare alcuni esempi: dal marketing del “free from” che ha ormai convinto i consumatori che dobbiamo preferire i prodotti privi di specifici ingredienti (a discapito di quelli “ordinari”), alla retorica del chilometro zero che polarizza l’opinione pubblica contrapponendo in modo irrazionale la produzione agricola all’industria di trasformazione. Tutto ciò ha a che fare con la cattiva informazione che è l’habitat prediletto delle fake news. Su questo però non c’era davvero bisogno del contributo della pubblicità.

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