Federalimentare: dopo Expo ora sviluppiamo l’export

Parte la gestione dell’eredità lasciata dall’esposizione universale alla filiera agroalimentare. Fra cui anche il Made with Italy. Ne parla Luigi Scordamaglia su Mark Up n.245

Come fare in modo che i risultati ottenuti con Expo non vadano sprecati? Ovvero come mantenere le esportazioni sui livelli di oggi e far fruttare il momento d’oro che stanno vivendo il prodotto ed il know how Made in Italy? Ne abbiamo parlato con Luigi Scordamaglia, presidente di Federalimentare.

Expo 2015 è finito. E adesso?
Expo è stato un grande successo, lo abbiamo detto tutti. Ma rappresenta anche una grande responsabilità perché c’è un mondo (70 capi di governo e migliaia di buyer intervenuti) che ora identifica nell’agroalimentare italiano un modello ideale per rispondere alla sfida globale che Expo si è posta. Un modello che parte dal concetto di Made in Italy e che si allarga a quello di Made with Italy. E cioè da un lato abbiamo assistito ad un aumento esponenziale di domanda, in varie regioni del mondo, del prodotto dell’eccellenza agroalimentare italiana. Dall’altro, parecchi mercati (dalla Russia all’Africa subSahariana, alla Cina) che sempre più diversificano le loro economie, si dimostrano interessati ad avere uno strumento di ottimizzazione e valorizzazione della propria produzione agricola: è qui che entra in gioco il Made with Italy, ovvero il know-how della nostra filiera, dall’industria delle macchine agricole a quella di trasformazione dei prodotti.

Non c’è conflittualità fra la nozione di Made in Italy e di Made with Italy?
Made in Italy e Made with Italy sono due concetti perfettamente sinergici. Gli alimenti Made in Italy sono frutto del saper fare del nostro territorio, in altri termini sono prodotti che si fanno in Italia per essere venduti all’estero. Il Made with Italy è, invece, l’esportazione delle nostre competenze nelle diverse aree del mondo, per aiutarle a produrre commodities, in maniera efficiente, quindi con alte rese (come quelle che caratterizzano la nostra industria) e a basso impatto ambientale, cioè altamente sostenibili. Per esempio, con la Russia, con cui abbiamo recentemente discusso del tema, si è chiarito che le eccellenze alimentari (Dop, Igp) si fanno in Italia e da qui si esportano, non c’è alternativa e non c’è delocalizzazione che tenga. Mentre, se parliamo di produzione di materia prima agricola, la filiera italiana è in grado di trasferire tecnologia sostenibile ed aiutare il paese a produrre di più e meglio. In questo senso, quindi, Made in Italy e Made with Italy diventano 2 modelli complementari.

Come si fa a mantenere l’attuale ritmo di crescita dell’export?
Dobbiamo lavorare in due direzioni: in primo luogo si deve continuare a insistere per attivare tutti gli strumenti che possono favorire la liberalizzazione degli scambi, ponendoci come protagonisti attivi negli accordi bilaterali che l’Unione Europea sta conducendo, e non come passivi riceventi di politiche che altri a livello comunitario decidono. Per citare dei casi concreti, l’Italia deve agire con determinazione verso il Ttip, l’accordo commerciale Ue-Usa, così come verso il possibile accordo commerciale con il Giappone, uno dei più importanti fra quelli che sono in sospeso sul tavolo dell’Unione Europea. Dobbiamo concentrarci, insomma, su tutte quelle trattative che hanno come obiettivo sia di ridurre le barriere tariffarie sia di parlare lo stesso linguaggio, o un linguaggio sempre più simile, per quanto riguarda le barriere non tariffarie.

La seconda area di attività sulla quale intendete operare?
Per mantenere l’attuale livello di esportazione, dobbiamo affiancare al lavoro sulle liberalizzazioni degli scambi anche un forte investimento in comunicazione. Stiamo parlando di milioni di euro che verranno stanziati innanzitutto per il piano Usa -una delle nostre priorità- e  a seguire anche in altri mercati. La finalità è quella di spiegare, attraverso campagne di comunicazione al consumatore del paese target, che cosa caratterizza e distingue il real Italian dall’Italian sounding. Detto altrimenti, tutto quello che non riusciremo ad ottenere tramite vie legali o di reciproco riconoscimento delle indicazioni geografiche, cercheremo di raggiungerlo attraverso programmi di informazione/formazione dei consumatori.

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