I costi invisibili del digitale per l’ambiente: soluzioni dal mondo dei pagamenti

Il digitale è spesso considerato come “insospettabile” in termini di costi e ripercussioni ambientali. Molti settori, tra cui quello dei pagamenti, stanno sensibilizzando sul tema gli utenti e fornendo soluzioni per colmare il gap di percezione

Il binomio catastrofi naturali, disastri economici è ormai qualcosa di ben noto, e con impatti nella vita di tutti i giorni. Negli ultimi anni, infatti, il cambiamento climatico ha causato eventi naturali più estremi, aggravandone profondamente le conseguenze. Secondo le prove raccolte in un rapporto pubblicato dall'Agenzia europea dell'ambiente (AEA) , gli eventi estremi causati dai cambiamenti climatici (tempeste, alluvioni, ondate di caldo, ondate di freddo, siccità, incendi boschivi, ecc.) danneggiano gravemente anche le economie dello Spazio economico europeo (See), e non solo paesi lontani e nell’immaginario interessati da caratteristiche climatiche estreme (deserti, calotte artiche, ecc.). Il rapporto in questione analizza le perdite economiche causate da eventi estremi legati al cambiamento climatico, ed evidenzia come, dal 1980 al 2019, gli Stati membri dello Spazio economico europeo abbiano perso complessivamente 446 miliardi di euro.

I costi ambientali per i principali paesi europei

Non tutti i paesi sono stati colpiti allo stesso modo, con alcuni che hanno registrato perdite maggiori rispetto ad altri, e l’Italia tra questi. Se guardiamo alle perdite economiche in termini assoluti, i cinque Paesi che più hanno risentito sono la Germania, con 107.400 milioni di euro persi dal 1980 al 2019, seguita appunto da Italia (72.500), Francia (67.500), Regno Unito (53.600) e Spagna (45.300).

Perdite economiche per paese in milioni di euro, dal 1980 al 2019. © Agenzia europea dell'ambiente (AEA)

Il dibattito mainstream in corso, poi, identifica il digitale come panacea di tutti i mali ambientali in atto, peccando di una qualche superficialità. La transizione al digitale aiuterà sicuramente l’ambiente, ma l’ “execution” verso questa transizione non è affatto automatica.

Quanto consuma l'universo digitale

La produzione di energia elettrica emette CO2, e l’universo digitale consuma molte risorse ed energia elettrica: nel 2008, secondo il TSP Lean ITC report del think tank indipendente The Shift Project, ha contributo con il 2% delle emissioni globali di gas serra, nel 2020 per il 3,7%, con una proiezione dell’8,5% al 2025. Queste stime sono pari alle emissioni dei veicoli leggeri e si stima che l’impatto nel 2040 arriverà al 14%.

Per avere un’idea, ricaricare la batteria di uno smartphone si consuma all’incirca quattro kilowatt ora all’anno; ma guardare 10 minuti di video in streaming, secondo la International Energy Agency, il consumo ammonta ad almeno 100 volte di più. Ciò avviene perché le infrastrutture digitali invisibili consumano moltissima energia per funzionare e, dato che il consumatore non percepisce in maniera diretta questi costi, è portato a pensare che questo consumo non esista. A ulteriore riprova dell’illusione di sostenibilità pure fornita dal digitavi, vi è la questione data center, dove vengono immagazzinati i dati, e creati i servizi digitali che poi utilizziamo da remoto e in cloud. La “nuvola” in questione, tuttavia, non ha nulla di etereo, e si compone di un’infrastruttura fisica, spesso allocata in posti remoti, composta da fibre ottiche, routers, satelliti, cavi sul fondo dell’oceano, sterminati centri di elaborazione pieni di computer, che necessitano di colossali quantità di energia e sistemi di raffreddamento.

In sostanza, lo sviluppo digitale è di fronte ad un bivio che lo porta a valutare l’impatto netto fra le emissioni evitate (ad esempio dagli spostamenti fisici, o comunque da azioni in presenza) e quelle prodotte per fornire un servizio immateriale. La soluzione più immediata da pensare – e al contempo più difficile da attuare – è quella di ripensare sistemi sostenibili, già a partire dalla produzione di energia elettrica, per ridurre il più possibile le emissioni.

Il ruolo dei pagamenti digitali

A questo proposito, la diffusione di una sempre più sentita coscienza ambientalista ha innescato una mobilitazione in  tanti settori della società, al fine di intervenire con azioni mirate di contenimento e correzione delle esternalità negative. Tra i tanti ambiti coinvolti è possibile citare quello dei pagamenti digitali, uno di quelli che si presta ad essere tra gli “invisibili” e “insospettabili” per impatto ambientale e che, invece, proprio per la complessità delle transazioni coinvolte è causa di un impatto ambientale non trascurabile.

Diversi player del settore si sono mossi su questo fronte, e tra questi la stessa Banca d’Italia, che, per conto dell’Eurosistema, ha sviluppato al piattaforma TIPS (TARGET Instant Payment Settlement) che vuole fungere da sistema europeo per il regolamento dei pagamenti istantanei, per permettere ai cittadini e alle imprese di effettuare rapidamente pagamenti in tutta l’area dell’euro e, in prospettiva, anche al di fuori di essa. I punti di forza dell’infrastruttura risiedono nella sua capacità di elaborare, grazie a un disegno tecnologico di avanguardia, milioni di transazioni al giorno, in pochi secondi per ogni operazione, con un’operatività ininterrotta nel corso dell’anno e con un bassissimo impatto ambientale (“con i volumi di progetto, le emissioni di CO2 per la singola transazione TIPS sono pari a circa 0,0004 gCO2”).

Tra gli attori privati, vi è poi Flowe, realtà lanciata da Banca Mediolanum, con l’obiettivo esplicito di calcolare le emissioni di CO2 rispetto agli acquisti, ed indirizzare i consumatori verso scelte più sostenibili e consapevoli nel proprio quotidiano. Si avvale di Åland Index Solution per mettere a disposizione gli strumenti per tracciare e calcolare l’impatto sul clima dei consumi. Nello specifico, il servizio di Åland Index Solution è composto da un software – sviluppato dalla startup Fintech Doconomy. Il suo uso permette a banche, fornitori di sistemi di pagamenti e istituti finanziari di ricevere un calcolo dell’impatto ambientale delle transazioni.

Il calcolo dell'impronta di carbonio di Klarna

Sulla stessa lunghezza d’onda è l’iniziativa di Klarna, azienda fintech svedese attiva in 16 mercati a livello globale, che condivide con Flowe la collaborazione con Doconomy e il ricorso al suo Åland Index Solution. Tale tecnologia calcola l'impronta di carbonio totale combinando il costo di ogni acquisto con l'impronta di carbonio di una particolare categoria merceologica. Ciò significa che l'indice può fare differenza tra gli acquisti (dal fiorista o dal dentista), ma non può rilevare se un consumatore abbia acquistato rose o tulipani. In tal senso vi è una dichiarata attenzione alla privacy, per cui l'indice non ha l’obiettivo di calcolare l'impronta esatta dello stile di vita di una persona, ma di fornire una panoramica abbastanza completa delle emissioni di carbonio della spesa.

Per di più, Klarna destinerà 10 milioni di dollari, pari all'1% dell’ultimo round di finanziamenti, a iniziative volte a contrastare il cambiamento climatico e la perdita di biodiversità, nonché a raggiungere l'ambizioso obiettivo di ridurre le emissioni del 50% entro il 2030.

"Se il valore di grassi, zuccheri e sale è indicato sull’etichetta dei cibi che acquistiamo, perché le nostre emissioni di CO2 non dovrebbero essere ugualmente visibili? Questo tipo di informazioni non deve essere un lusso per cui i consumatori devono pagare, piuttosto una parte essenziale di ogni acquisto. Ecco perché stiamo aggiornando la nostra app per dare ai nostri utenti in tutto il mondo una visione trasparente dell'impronta di carbonio dei loro acquisti. Tutti noi prendiamo decisioni che influenzano la salute del pianeta ed è quindi essenziale avere accesso a informazioni chiare per fare scelte climatiche intelligenti e in modo semplice", ha dichiarato Sebastian Siemiatkowski, Ceo e co-fondatore di Klarna.

© Klarna

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