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1. L'indigenza incide
sugli acquisti
del paniere alimentare
2. La disoccupazione
è tra le maggiori cause di miseria
Nel 2010, celebrato come l'anno europeo della lotta alla povertà e all'esclusione sociale, in Italia si manifestano forti segnali di indigenza nella parte più fragile della popolazione. Sono poco più di 2,7 milioni le famiglie che nel 2008 secondo Istat annoverano condizioni di povertà relativa per un numero complessivo di 8,78 milioni di individui pari al 13,6% dell'intera nazione. Numeri che non lesinano in quantità anche discorrendo di povertà assoluta: 1,12 milioni di famiglie vivono in condizioni di disagio registrando un totale di 2,89 milioni di individui (4,9% del totale della popolazione). Un processo in crescita quello della povertà, maggiormente sentito in un periodo di crisi economica e sociale che affonda le sue radici in situazioni familiari non sempre di povertà marginale ed estrema. Occorre, infatti, uscire dallo stereotipo della persona senza dimora cercando di fare luce su quella fascia di popolazione che, pur considerata a basso reddito, cerca di legittimare la propria posizione sociale destreggiandosi nella scelta di piccoli consumi quotidiani. Le pratiche di consumo possono adempiere, dunque, al compito d'identificazione sociale facendo sentire le persone meno ai margini, gratificandole e aumentandone la stima.
Il gusto di vivere comunque
Partendo da questo punto il Centro per lo studio della moda e della produzione culturale dell'Università Cattolica di Milano, in collaborazione con gli atenei di Milano, Bologna, Sassari e Trento, ha elaborato lo studio “Consumi ai margini” dal quale emerge, per esempio, che il 62% delle famiglie composte da due persone e che vivono sotto la soglia di povertà possiede un'automobile.
Così come due famiglie su tre ha un cellulare (69%) e la scelta di alcuni abiti o arredi avviene per avvicinarsi socialmente agli altri. Nonostante, dunque, casi di privazioni estreme, le famiglie cosiddette povere pur destinando la maggioranza del loro reddito all'abitazione e alle bollette e in alcune situazioni far ricorso alle mense pubbliche per alimentarsi, mantengono alcuni bisogni senza rinunciare al gusto di vivere che spesso emerge dai consumi quotidiani e dal personale sogno di bellezza.
Una definizione del bello che in questo frangente assume l'identità di oggetto nuovo contrapposto a quello usato e segnala la distinzione fra ricchi e poveri, fra superfluo che viene gettato e la scarsità che costringe a riutilizzare tutto. Come nel caso dei beni durevoli che il più delle volte sono frutto di doni della parrocchia o di un centro di assistenza, mentre nei casi di prodotti nuovi sono l'esito di un indebitamento che però mostra i segni di una volontà di omologazione con la società.
Testimonianze di riscatto provengono, invece, dagli immigrati per i quali la povertà dei consumi convive con l'accumulazione dei risparmi da inviare ai familiari in patria. La prospettiva di una vita migliore sostiene, dunque, la durezza quotidiana che il più delle volte è confortata dai consumi mediali orientati a mantenere i rapporti con il luogo di origine.
La dieta dei poveri
A esclusione delle spese per l'abitazione, ciò che incide maggiormente sul portafoglio delle famiglie meno abbienti è la voce degli alimentari e bevande.
Da uno studio di Banco Alimentare e Fondazione per la Sussidiarietà si registra che i nuclei familiari alimentarmente poveri spendono mediamente 155 euro al mese per l'approvvigionamento di cibo a fronte di uno scontrino mensile di circa 525 euro delle famiglie agiate. La compressione del denaro destinato all'acquisto di cibo al di sotto degli standard medi non solo è sinonimo di minor quantità, ma assume anche il significato di ridotta qualità della dieta.
Guardando nel carrello della spesa si possono avvertire, inoltre, delle differenze sostanziali tra gli acquisti delle famiglie povere e non in alcune categorie quali bevande, oli, pesce, gelati, dolciumi e drogheria. I nuclei familiari con difficoltà economiche concentrano, inoltre, le proprie risorse nell'acquisto di pane e cereali, latte, formaggi, carne e salumi tralasciando i pasti fuori casa per i quali mediamente destinano 6,53 euro al mese contro 80 euro delle famiglie agiate.
L'incidenza della povertà alimentare cresce con l'aumentare del numero dei componenti della famiglia; a maggior rischio sono, inoltre, le famiglie composte da coppie di anziani, da monogenitori e quelle in cui è presente almeno un figlio minore.
La disoccupazione
tra le cause di povertà
Tra le cause di povertà, la disoccupazione guadagna il primo posto incidendo per il 59%. Al dato emerso dallo studio di Banco Alimentare e Fondazione per la Sussidiarietà, si accompagnano altre due concause di povertà: salute/disabilità (30%) e morte di un familiare o separazione dal coniuge (15%). Il lavoro, o meglio la sua perdita, resta in ogni caso la ragione principale di indigenza.
Anche nel caso di occupati in modo stabile od occasionale, sono le professioni a basso reddito a soffrire maggiormente: l'81,6% degli assistiti del Banco Alimentare è rappresentato da operai, mentre solo il 6,9% sono impiegati e l'8% lavoratori autonomi.
Superformati e consumi
fuori casa causa
degli sprechi alimentari
Secondo Coldiretti il 10% della spesa alimentare degli italiani finisce nella spazzatura, ovvero una quantità di cibo sufficiente a sfamare quasi il doppio delle persone indigenti.
A finire nel sacco dell'immondizia sono soprattutto gli avanzi di cibo, ma anche gli alimentari scaduti o deteriorati quali frutta, verdura, latticini e salumi per un ammontare complessivo di 560 euro all'anno per famiglia. Colpevoli dello spreco sono soprattutto i single complici le confezioni e formati non adatti ai loro consumi e l'abitudine ai consumi fuori casa.
Due povertà con soglie distinte
- La povertà relativa è calcolata sulla base di una soglia convenzionale (linea di povertà) che individua il valore di spesa per consumi al di sotto del quale una famiglia viene definita povera in termini relativi.
- La povertà assoluta è quantificata sulla base di una soglia di povertà che corrisponde alla spesa mensile minima necessaria per acquisire un determinato paniere di beni e servizi. Tale paniere rappresenta l'insieme dei beni e servizi che sono considerati essenziali a conseguire uno standard di vita minimamente accettabile.
Fonte: Istat
Gli immigrati, consumatori a tutti gli effetti
Il 78% degli immigrati maggiorenni nel nostro paese annovera un reddito da lavoro che mediamente si attesta a 899 euro al mese.
Secondo la ricerca “I consumi dei migranti” condotta da Gfk Eurisko, a tanto ammonta, infatti, il guadagno procapite di quelle persone che in Italia vivono, lavorano ma non ne hanno la nazionalità. Una cifra dalla quale scaturisce un risparmio medio che si stima per nucleo familiare pari a 169 euro al mese e che costituisce gran parte delle rimesse che gli immigrati inviano in patria soprattutto ai propri genitori (52%).
Per quanto riguarda le dinamiche d'acquisto, occorre tenere conto che il numero di immigrati in Italia cresce di circa 400.000 persone all'anno e complessivamente rappresenta il 3% dei consumi (fonte Bocconi).
Prevalgono le contrazioni a carico dei consumi culturali e ricreativi, mentre sono stabili i beni di consumo di prima necessità. Le offerte di telefonia mobile hanno determinato, inoltre, un calo del ricorso a phone centre e phone card. L'alimentazione e la telefonia spiccano nelle spese alle quali fanno seguito quelle per l'alloggio. In materia di consumi alimentari gli immigrati si adeguano alle nostre abitudini alimentari mettendo nel carrello della spesa prevalentemente pasta (68% consumo frequente), caffè (62%), riso (53%), carne (41%) e latte fresco (38%) (fonte Gfk Eurisko).
Tra i canali preferiti per l'acquisto di alimenti, il discount con il 54,2% è quello più frequentato seguito dall'ipermercato con il 35,3% delle preferenze (fonte Makno-Gpf).
Allegati
- 186-MKUP-Poverta
- di Anna Bertolini / marzo 2010